Filosofia
L’inappagabile arsura di chi beve ai pozzi avvelenati del potere
Fin da piccoli viene alimentata in noi una sete di potere, aneliamo tutti a diventare Re di Camelot o Principesse prigioniere in una torre o addormentate nel bosco in attesa del Principe azzurro. Apparentemente le fantasie scompaiono, ma in realtà restano sepolte sotto la cenere e continuano a orientare segretamente le nostre scelte e i nostri sentimenti.
Ancora una volta l’educazione non ci aiuta né tantomeno lo scenario impietoso della politica e delle istituzioni: dal traffico ai colleghi di lavoro, dal gruppo parrocchiale alla beghe di partito, è tutta una corsa a prevaricare sull’altro per essere i primi.
Man mano che cresciamo, lo sguardo sugli altri diventa sempre più confuso: gli altri ci appaiono sempre più come avversari, rivali o concorrenti. A parte i casi estremi di delirio, in cui la vita si alimenta nel gusto di schiacciare la testa dell’altro, nei casi ordinari la vita viene vissuta come un’eterna gara che ci lascia nella frustrazione di non sentirci mai arrivati: la sete di potere è terribile, perché continua ad autoalimentarsi, lasciandoci sempre più assetati, nell’illusione che la prossima fonte possa dissetarci. Ma i pozzi del potere sono avvelenati, accendono la sete piuttosto che spegnerla, perciò l’unica soluzione è cercare altre fonti dove andare a bere!
Chi pensa che il proprio tempo sia troppo prezioso perché sia speso nell’ascolto degli altri, non avrà mai veramente tempo per Dio e per il fratello, ma lo riserverà solo a se stesso, per le proprie parole e i propri progetti”
Bonhoeffer, Vita comune
Anche i discepoli di Gesù, ieri come oggi, sono assetati di potere: davanti alle parole di Gesù che confida la sua angoscia davanti alle prospettive di morte che si fanno sempre più concrete, ancora una volta i discepoli progettano il loro futuro, preoccupandosi di chi dovrà sostituire il maestro quando non ci sarà più.
Ogni vuoto di potere, o la prospettiva di un vuoto di potere, genera una corsa alla sostituzione, è sempre l’occasione possibile per dare tregua alla propria sete.
Giacomo e Giovanni rivendicano un loro privilegio, forse perché sono stati i primi ad essere chiamati da Gesù, forse perché ostentano una possibile parentela con Gesù o forse solo per il loro carattere impetuoso, visto che non a caso erano chiamati “figli del tuono”.
Giacomo e Giovanni non si lasciano intimidire dalle condizioni evocate da Gesù, confidano sulle loro forze, sono assolutamente sicuri delle loro capacità (Gli risposero: «Lo possiamo»).
Gesù evoca infatti due immagini dell’Antico Testamento molto provocatorie e per certi versi violente: il calice è non solo il calice della gloria, ma anche il calice dell’amarezza e dell’ira di Dio, è un’immagine che evoca vendetta e morte, non a caso è sul calice che Gesù pronuncia una delle benedizioni durante l’ultima cena, sostituendo il proprio sangue al sangue dell’agnello, offrendo se stesso come riscatto, cioè come prezzo, per la liberazione degli uomini tenuti schiavi dalla morte. Gesù è infatti il goel, ovvero, secondo l’Antico Testamento, colui che libera, salva, paga il riscatto.
Così anche il battesimo, cioè letteralmente immersione, non è solo il gesto del rinnovamento della vita, ma è l’immagine di chi è travolto dalle acque del male, proprio perché immerso liberamente in esse. Gesù è colui che si lascia immergere per essere travolto dalle acque del nostro male, quelle acque di morte dalle quali il Padre lo tirerà fuori, mostrandolo vincitore della morte.
Se la gloria di Cristo è la croce, allora diventa significativo che in quel momento alla destra e alla sinistra di Gesù non siederanno Giacomo e Giovanni, ma due peccatori, i due ladroni, due uomini condannati e giustiziati. Accanto a Gesù, nella sua gloria, siedonoi condannati e gli esclusi di ogni tempo, quelli che non abbiamo ritenuto degni di accostarsi a Lui. Accanto a Gesù siedono perciò coloro che non hanno merito.
La nostra sete trova pace quando non è più sete di potere, ma sete di servizio: nella Bibbia infatti non c’è solo la sete di Giacomo e di Giovanni, ma c’è la sete della cerva che desidera ardentemente l’acqua, forse perché i cervi, secondo un’antica tradizione, mangiavano serpenti velenosi che però liberavano un veleno che infiammava le viscere del cervo, creando un forte bisogno di bere. Per questo nell’iconografia il cervo è diventato simbolo del credente che cerca l’acqua di Cristo perché si è nutrito del peccato.
Ma nel Vangelo c’è anche la sete della donna Samaritana che cerca un senso alla sua vita, un senso che possa dissetare la sua sete di affetto. Ma soprattutto c’è la sete di Gesù, che non solo si fa mendicante di parola e di relazione davanti ad una donna sconosciuta e straniera, ma che mentre è sulla croce confessa la sua sete per la salvezza di tutti gli uomini. E Gesù continua ad avere sete in ogni piccolo, in ogni ultimo, che chiede da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca. Ma a volte ho l’impressione che in nome delle nostre idee, come Chiesa, siamo tentati di negare anche quello.
Siamo condannati alla follia dell’arsura fin quando continuiamo a bere ai pozzi avvelenati del potere. La vita trova senso solo quando è spesa per qualcuno o per qualcosa. La vita diventa ossessione quando si è concentrati solo sulla propria sete. Non a caso un uomo come Bonhoeffer, pastore protestante giustiziato dai nazisti, uno che aveva messo la vita della sua gente prima della sua, potrà dire: Solo chi vive per gli altri vive responsabilmente, ossia vive.
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Nella foto, particolare del mosaico absidale della Basilica di san Clemente – Roma
Testo
Leggersi dentro
- Di che cosa hai sete?
- Quanto spazio ha nella tua vita la ricerca del potere?
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