Benessere

Se telefonando: la voce dell’empatia – La Posta del Cigno Nero

23 Ottobre 2020

Caro Cigno Nero,

In questo periodo di forzata clausura ho ricevuto molte telefonate di persone che non sentivo da tempo. Con loro ho riscoperto il valore della relazione autentica che, come il suo contrario, forse emerge meglio attraverso la comunicazione telefonica, che viaggia sul filo sottile della voce, sostenuta, nel migliore dei casi, dall’intelligenza emotiva, in particolare dall’empatia. A proposito di empatia: è innata o si può apprendere ed eventualmente incrementare? Ritengo che, se si attribuisse maggior peso a questa capacità, forse migliorerebbero i rapporti interpersonali e si eviterebbero tanti inutili conflitti. Mi sbaglio?

Sofia

 

Cara Sofia, 

pare che Freud non amasse il telefono, cosa che suona abbastanza strana se pensiamo alla sua professione basata proprio sull’ascolto. Probabilmente questa diffidenza era dovuta al sospetto che il telefono rappresenti una sorta di filtro per ciò che la parola può esprimere e che la presenza invece amplifica. Chissà se vivendo il nostro particolare periodo storico, di forzata clausura come dici, e considerando l’evoluzione di questo strumento all’interno della società, il padre della psicoanalisi avrebbe continuato a pensarla così (fermo restando che la presenza fisica è fondamentale per chiunque lavori in ambito psicologico o esistenziale).

E’ innegabile che lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, in cui il telefono ha avuto un impatto di non poco conto, abbia accorciato in qualche modo le distanze tra noi, trasformando il mondo in un “villaggio globale”, come ha messo ben in evidenza il filosofo e sociologo McLuhan, ma resta il fatto che quella facilità con cui oggi comunichiamo superando la distanza geografica che ci separa dagli altri, quasi mai va di pari passo con la creazione di relazioni autentiche, in cui ad essere in gioco è un altro tipo di distanza.

Sappiamo che nella comunicazione gli aspetti verbali e non verbali sono interconnessi: ciò che diciamo o che vogliamo esprimere con le parole è sempre accompagnato a gesti, espressioni del viso, postura e cambiamenti del corpo. Ma cosa succede quando la relazione è affidata unicamente alla voce?

Roland Barthes condivideva con Freud l’antipatia per il telefono, che lascerebbe filtrare una voce falsa, impossibile da riconoscere completamente, come se provenisse da dietro una maschera. Lungi dal metterci in collegamento negando la separazione fisica che c’è tra noi e gli altri, il telefono, per il semiologo francese, sottolineerebbe una distanza in cui chi è all’altro capo sembra sempre sul punto di andarsene, negli intervalli tra voce e silenzi, a causa della sua assenza come immagine e della sua presenza solo come testo. Ritorna così l’aspetto dei piani di comunicazione, dove ciò che dico o che nascondo col linguaggio può essere tradito dai miei gesti, dal rossore sul mio volto, dalla direzione del mio sguardo, ma anche dal timbro della mia voce. Sembra perciò che la voce, prodotto della vibrazione delle corde vocali e quindi ben radicata nel nostro corpo, in qualche modo leghi il verbale e il non verbale, la parola e l’immagine, con il suo filo sottile che, tuttavia, per non spezzarsi ha bisogno di quell’empatia cui fai riferimento.

Con la scoperta dei neuroni specchio, che ci permettono a livello neuronale una intuizione e una comprensione immediata dei comportamenti altrui, non solo in termini di azioni ma anche di emozioni, possiamo dire di essere biologicamente predisposti all’empatia, che resta però una possibilità, a partire dall’ambiente in cui cresciamo (fondamentale fin dalla nascita è il tipo di relazione con le figure di accudimento), dalle esperienze che facciamo e dalla nostra capacità di tradurre in storia emozioni e sentimenti.
A livello esistenziale l’empatia, che è più complessa di come ce la raccontiamo, è accorgersi, nel proprio campo esperienziale, della presenza dell’altro che, pur restando altro, risuona in noi. In questa risonanza il corpo ha un ruolo centrale, perché col mio corpo apprendo ciò che il corpo dell’altro dice. Ma quando il corpo non è presente, quando è una voce all’altro capo del telefono, ciò che resta è immaginare quel corpo affidandolo interamente all’orecchio, che è il tramite di un ascolto puro che nella risonanza diventa un “fracasso intelligibile”, direbbe Barthes.

Di sicuro con l’empatia si possono evitare molti inutili conflitti, ma non dobbiamo perdere di vista quella distanza necessaria per mettere a fuoco: se sfociasse in una fusione, si perderebbero i confini della propria soggettività e, come avviene quando ci si identifica con l’altro, finiremmo per prevaricarlo sostituendo la nostra voce alla sua.

Per Edith Stein l’empatia può anche “ingannarci”, facendoci attribuire all’altro ciò che non gli appartiene, salvo poi correggere il tiro con un ulteriore atto di empatia; così come può agire “in negativo”, quando ci fa rendere conto di una distanza incolmabile che ci separa da qualcuno.
Nutrimento delle relazioni autentiche, l’empatia, quando è affidata alla sola voce, non può che riferirsi allora all’interlocutore perfetto, quello cioè che sappia fare di quel filo sottile una corda che vibra.

Per Roland Barthes “angosciarsi per il telefono è il segno inequivocabile dell’amore”.
Oggi, che viviamo una situazione di distanziamento sociale, è ancora così? Cosa direbbe in proposito l’interlocutore perfetto?

Maria Luisa Petruccelli

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Ph: “Calling” by Free for Commercial Use is licensed under CC BY-SA 2.0
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