Filosofia

Se ogni giudizio è un dramma

1 Agosto 2023

C’è, dev’esserci, in ogni saggio di filosofia ben pensato e ben redatto una significativa eccedenza di senso che possa contenere non solo alcuni sviluppi della riflessione dell’autore, ma soprattutto la possibilità per il lettore e lo studioso di proiettarsi verso ulteriori e diversi percorsi di senso e interrogativi. È quanto vien fatto di pensare anche in relazione al saggio di Alessio Lo GiudiceIl dramma del giudizio” pubblicato di recente da Mimesis. Obiettivo primario dell’autore (docente di filosofia del diritto nell’ateneo di Messina) è tracciare i contorni di una possibile e feconda “filosofia del giudizio come dramma”, intendendo questa come cuore e chiave per un’autentica comprensione della natura stessa, umanissima e strutturalmente conflittuale, del diritto. Il punto di partenza di questa riflessione e, quasi in un costante rapporto dialogico, il suo punto di riferimento è il pensiero del grande giurista cattolico Francesco Carnelutti (1879 – 1965), il quale nel 1949 scrive così: «dopo aver tanto parlato di processo, bisogna parlare di giudizio per capire non tanto il processo quanto il diritto cosa sia». Lo Giudice parte da qui, accetta la sfida e dispiega la sua riflessione confrontandosi con opere letterarie e teatrali quali l’Orestea di Eschilo e il Processo di Kafka, col pensiero di giuristi del calibro di Carnelutti appunto e poi di Salvatore Satta, Franco Cordero, Bruno Romano, con l’elaborazione di filosofi quali Eraclito e Aristotele anzitutto e poi, più di tutti, Kant per la sua teoria del “giudizio riflettente” e ancora Hannah Arendt, Paul Ricoeur e Jean-Francois Lyotard.

Una riflessione che l’autore svolge in modo ordinato in sei densi capitoli senza perdere mai di vista i due rischi entro cui la pratica del giudizio giuridico si dibatte: da una parte l’astrattezza deterministica, e quindi disumana, del sillogismo (dalla premessa generale della norma al particolare del caso considerato), dall’altra la consapevolezza drammatica e paralizzante di non poter in nessun modo pervenire ad un giudizio sicuro. Ma ritorniamo a quel dato di cui si diceva all’inizio: l’eccedenza di senso. L’autore dichiara più volte la consapevolezza che questa sua esplorazione filosofica accade nel pieno verificarsi di quella condizione tipicamente post-moderna di «incredulità nei confronti della meta-narrazioni» (Lyotard). Il giudizio giuridico deve basarsi su una cultura diffusa e condivisa e su una carta costituzionale che ne sappia raccogliere (e rilanciare) senso e storia. Diversamente, se vacillano o vengono meno questi presupposti civili e culturali, nella necessità di rispondere alle richieste/pretese di giustizia rischia di perdere autorevolezza e scivolare verso i rischi opposti di cui si diceva prima (il determinismo falsamente logico o la paralisi per la consapevolezza della inattingibilità della verità). La conseguenza che il lettore, anche quello meno filosoficamente attrezzato, può trarre è che il carattere drammatico del giudizio giuridico, quale garanzia di libertà, di autenticità e di rispetto per la complessità dell’umano, può essere ipotizzato per molte altre forme di giudizio e di attività culturale e intellettuale. Anzi diventa in qualche modo la caratteristica che le rende autenticamente umane e feconde. E non solo per la sempre più incombente e minacciosa presenza dell’intelligenza artificiale, quanto perché questa presenza incontra sempre più spesso una spinta / esigenza / induzione a una semplificazione della percezione e della conoscenza della realtà (nella sua sostanza storica e politica, negli spazi di elaborazione e di consapevolezza e nei sistemi di trasmissione inter-generazionale) che, a ben vedere è altrettanto, se non più, minacciosa e foriera di tragedie.

Alessio LO GIUDICE “Il dramma del giudizio”, Mimesis – 2023, pp. 200, euro 15,00.

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