Filosofia
Scrivere nel contagio: l'(im)potenza della letteratura
Ma se la letteratura non basta ad assicurarmi che non sto solo inseguendo dei sogni, cerco nella scienza alimento per le mie visioni in cui ogni pesantezza viene dissolta. (Lezioni Americane, Italo Calvino)
Scrivere nel contagio si avvicina a un ossimoro: durante una pandemia non ci resta che cercare mascherine, pane per sopravvivere, connessione wi-fi per illuderci di vederci carnalmente e poi, come fondamentale, un vaccino; non ci resta che piangere. Cerchiamo la scienza. Nulla che ha a che fare con il mestiere di scrivere.
Non è esattamente chiaro come è possibile contestualizzare l’affermazione di Eliot, secondo il quale le striature del tulipano possono indicare la fine del mondo, durante un momento che necessita di riferimenti precisi. Numeri di guarigioni, contagi e morti sono gli accostamenti di parole, virgole, zeri e cifre rigorose di cui ora abbiamo bisogno. Non si tratta della definizione precisissima delle sensazioni a proposito delle descrizioni di Paul Valery sulla necessità di riportare la poesia verso l’esattezza per riflettere fedelmente il reale. La precisione della scienza è tutto ciò di cui l’uomo ha fame ora, e di questi numeri ne abbiamo bisogno per salvarci.
Eppure “I giusti” di Borges coltivano il giardino come voleva Voltaire e scoprono il piacere dell’etimologia: stanno salvando il mondo. Il non – indispensabile detta le regole per una vita essenziale e felice: è il popolo che non ha bisogno di eroi su cui insiste Brecht. Ma ora di eroi ne abbiamo bisogno e questa volta nessuno si salva da solo, e può farlo solo con la mascherina in tasca, o meglio, sul viso.
L’anatomia del corpo di una frase e la dialettica tra i participi e i presenti perdono la conformazione prima immaginativa e poi fisica sul foglio, per rimanere soltanto un manuale di estetica letteraria appoggiato sulla scrivania in legno. E al cliché un po’ radical chic aggiungiamo anche altri elementi nella sua stanza: l’abat-jour sul comò rimane silente. La luce non è più il massimo operatore di immagini, non ci serve l’amplificazione della figura della fiamma nella rêverie – o sogno a occhi aperti – di Gaston Bachelard per sentirsi vivi. In fondo a ciascuna parola – aggiungerei “non” – assisto alla mia rinascita, modificando l’intuizione di Bosquet del Premiere poéme (1975).
Il cogito del fantasticare si allontana dalla sua funzione ricreatrice di vita e prende violentemente il suo posto il cogito come conoscenza empirica, reale contatto umano, risposte dei medici: il cogito mi deve assicurare che esisto sì, ma che posso anche essere immune.
Un rigoroso lavoro scientifico è quello che oggi l’umanità sta chiedendo a se stessa e se ora il mondo fosse una dialettica hegeliana fallirebbe immediatamente. Non è possibile l’ aufhebung o sintesi per la realizzazione dello spirito e dell’uomo stesso. Una delle due parti in conflitto sta prevalendo sull’altra senza conciliarsi: il razionale e progressivo pensiero scientifico sull’irrazionale fantasticheria del sogno.
E perché questa rigorosa ricerca razionale è così tanto vincente anche su quei guanti disinfettati che, sul Toshiba bianco lentissimo per l’iper connessione nel condominio, vorrebbero evadere del reale digitando qualche figura retorica? Forse è proprio vero che l’uomo è famelico di fame futura, che l’ansietà del divenire riguarda l’unico animale sociale sulla terra e richiederà sempre più previsioni e certezze per sopravvivere. Forse Hobbes non si sbagliava così tanto nei suoi Elements of law, natural and political (1650). L’uomo prometeico, o meglio, l’uomo che pensa in anticipo, ci riguarda, e se Zeus aveva lasciato l’incarico a questa figura pensante di concedere anche agli uomini la sua virtù, allora l’uomo tutt’ora provvede e prevede al futuro insistentemente e la salvezza è così razionale.
Eppure fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza non ci basta, perchè Dante poco dopo continua specificando un dettaglio fondamentale o meglio l’eterno ritorno del confine che segna i limiti della conoscenza umana: le colonne d’Ercole. E allora ci disperiamo: non basta il razionale progresso scientifico a placare il senso umano dell’ansietà, qualcosa di più grande e irrazionale rimane a sovrastarlo e prende il nome di volere della natura. E che sia per volontà divina o per errore umano, rimane una risposta aperta.
E allora forse il Dialogo tra la Natura e l’Islandese di Leopardi ci ricorda che non è una constatazione così individuale, che in questa ricerca della felicità siamo coinvolti tutti: l’uomo razionale e l’uomo in tensione verso l’irrazionale che non è un idiota, signore, ma un sognatore, come direbbe Scrubs.
Scrivere nel contagio rimane un’azione impotente, la letteratura non potrà mai identificarsi nell’indovino tebano Tiresia tanto cantato dalla poesia classica, profeta degli eventi futuri e risolutore delle sofferenze: cosa ne sa delle libertà del prossimo Dpcm. Abbiamo bisogno di una letteratura guida, un nuovo mestiere di scrivere carveriano che si identifichi con il mestiere di vivere tanto detto da Pavese, e comunque non basterà a colmare il citofono muto che aspetta la spesa a domicilio.
La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici. (Lezioni americane, Italo Calvino)
Togliere peso alle cose, lasciare allo sguardo molteplici prospettive, rimanere coerenti con se stessi e non perdere di vista l’esattezza delle proprie decisioni, sono alcune lezioni con le quali il docente di letteratura Italo Calvino, nel 1985, doveva preparare i suoi studenti della Harvard University. Per cosa? Per la letteratura del 2000 e, sì, proprio così, per la vita nel nuovo millennio. Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza: Lezioni Americane (1985), sei proposte per il prossimo millennio, e sì, date dalla letteratura.
E allora dobbiamo pretendere che ritorni una grande letteratura, che possa avere un ruolo guida nella maggiore disperazione dell’uomo, che non ne sia la medicina, il contratto o la quota giornaliera, ma che sia un riferimento per questo uomo che soffre e che spera.
Questo ti voglio direci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tuttich’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare. (..) (Michelangela Gualtieri, Nove marzo duemilaventi)
Non ho paura di ammalarmi. Di cosa allora? Di tutto quello che il contagio può cambiare. Di scoprire che l’impalcatura della civiltà che conosco è un castello di carte. Ho paura dell’azzeramento, ma anche del suo contrario: che la paura passi invano, senza lasciarsi dietro un cambiamento. (Paolo Giordano, Nel contagio)
Nove marzo duemilaventi e Nel contagio sono figli della pandemia, caratteri di stampa nati dalla morte. E se uno afferma che forse compito di un poeta, soprattutto nell’emergenza, è ridire il già detto, ma dirlo con la lingua del presente, l’altro dice che bisogna uscire dall’equivoco della letteratura come puro intrattenimento, e il contagio diventa un’infezione nella nostra rete di relazioni. Intanto la protezione civile continua a proporre i numeri di guarigioni, morti, contagi E, tuttavia – come intitola le sue poesie in prosa Jaccottet – dietro alla finestra di una casa qualcuno scrive.
Quando il timore che la luce si spezza è ormai troppo forte, giunti in un luogo dove anche il più bel libro non è che un riparo precario, il gelo della fine parrebbe non lasciare alcuno scampo. E, tuttavia, anche in quel luogo estremo, a un infinitesimo dalla morte, c’è.. (E, Tuttavia, Philippe Jacottet, Marcos Y Marcos Editore)
L’impotenza della letteratura è evidente e non ci servirà neanche tirare fuori La strada di Swan di Proust per ribadirlo. Allora cerchiamo di renderla eterna, una risposta non toccabile ma necessaria, ridando quel vigore che non possa far scordare all’uomo anche l’altra parte che la razionalità richiede e si manifesta nel sapere umanistico. Abbiamo bisogno di eroi e di respiratori, sforziamoci di ricordare alla letteratura che può stare accanto a un uomo solo e che assuma ogni forma della mutevolezza del mondo, che non viva solo in tempi adatti a lei, ma che lei si adatti ai tempi.
Mi piacerebbe che ci rincontrassimo tutti quanti, qui, in una sera come questa, tra 100 anni, aveva chiesto Andrea Camilleri, in una sera d’estate al teatro di Siracusa, al termine della rappresentazione teatrale del mito eterno di Tiresia. E forse ci ritroveremo anche fra poco, su quella scalinata, con le mascherine in borsa, a guardare l’inutile rappresentazione della letteratura.
Francesca Vannini
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