
Filosofia
Scrivere col corpo al tempo della scrittura liquida
Caro Cigno Nero,
ho letto sul Corriere di un progetto in una scuola di Latina. Il progetto si chiama “Metti la Olivetti sul banco”, e in pratica si tratta di far cimentare gli studenti con la macchina da scrivere, un oggetto praticamente sconosciuto a questa generazione di nativi digitali, come vengono definiti i ragazzi nati insieme alla tecnologia. In un primo momento, soffermandomi sul titolo dell’articolo, mi è sembrato l’ennesimo ritorno degli oggetti del passato, che va tanto di moda ultimamente, come è successo per i dischi e come ciclicamente succede un po’ in tutti i settori, compreso quello della moda. Ma leggendo l’intero articolo si sono fatte strada nella mia testa alcune domande. La macchina da scrivere sarebbe, secondo gli ideatori del progetto, un tapis roulant per la mente, perché “costringerebbe” i ragazzi a concentrarsi di più, e funzionerebbe addirittura come stimolo a livello neuronale. Oltre a questi motivi, ci sarebbe poi l’obiettivo di promuovere un uso più moderato dei dispositivi elettronici. Insomma tutto bello in teoria. Ma andando sul pratico, mi chiedo, quanto può servire una esperienza del genere limitata a qualche ora nelle scuole, se poi i ragazzi usciti dall’aula torneranno ad essere circondati e dipendenti da quei dispositivi elettronici di cui sembra non si possa più fare a meno?
Rosa B.
Cara Rosa B.,
ne “La Gaia Scienza” Nietzsche scrive: “Io non scrivo solo con la mano: anche il piede vuol essere sempre scrivano. Sicuro, libero e audace, mi accompagna correndo ora sul campo, ora sul foglio bianco”. E se per noi la mano – figuriamoci il piede – ha ormai un ruolo marginale nella produzione dei contenuti della mente, per il filosofo tedesco esiste un inscindibile legame tra i ritmi fisici, come il camminare, il correre, il danzare, e quelli mentali. Il movimento insomma risveglierebbe il pensiero e l’attività creativa. Dai pittogrammi alle incisioni su pietra, passando per piuma e calamaio, fino alla biro e alla carta stampata, la scrittura è sempre stata il segno visibile dell’azione altrettanto rintracciabile che l’ha generata. In quanto segno, essa lascia quindi una traccia, come le orme lasciate dai nostri passi. Per restare, però, per diventare cioè memoria di un passaggio, di una presenza, le parole hanno bisogno di una forza che le incida (se non addirittura di uno sforzo), di quell’azione che modifica la superficie su cui la mano si posa – la pagina bianca – e con essa lo stato preesistente delle cose.
Sui dispositivi elettronici non possiamo incidere le parole. Certo, le nostre dita lasciano impronte, ma quelle impronte non comunicano nulla al di fuori del fatto che quei dispositivi li abbiamo usati. Le lettere sotto le nostre dita sono andate scomparendo nella loro corporeità e oggi ci basta trascinare sullo schermo un dito senza nemmeno sollevarlo per scrivere a qualcuno. E siccome anche questo ci costava fatica, sono arrivati i messaggi vocali. Fino a chat GPT che produce testi al posto nostro, tra le altre cose.
Le parole che digitiamo sugli smartphone, sui pc, sui tablet, sono le molecole di una scrittura liquida, come la musica rimasta orfana di supporti come i vinili e le musicassette. Quanta armonia resta in quello che scriviamo senza nemmeno sollevare le dita da uno schermo? Quanto incisive possono essere le parole che non richiedono nessuno sforzo? La scrittura liquida non può lasciare traccia. Evapora, come l’acqua. Il movimento necessario al pensiero che dalla testa passava per l’intero braccio e finiva con le dita che impugnavano una penna si è ridotto fino a scomparire. Azzerando la fatica della scrittura il pensiero si è intorpidito nel suo restare fermo. C’è allora una domanda che è imprescindibile in questo discorso: è la scrittura ad aiutare il pensiero o il pensiero ad alimentare la scrittura? Il pensiero può essere considerato il setaccio della scrittura o è piuttosto vero il contrario?
Per provare a rispondere a questa domanda dobbiamo prendere in considerazione un terzo aspetto, e cioè lo spazio. Abbiamo bisogno di spazio per i prodotti della nostra mente, per le idee, le conoscenze, le informazioni a nostra disposizione. Dove mettere tutto questo materiale? Non accontentandoci dell’Iperuranio di Platone, residenza delle idee immutabili e perfette, raggiungibili dall’intelletto, abbiamo creato le nuvole virtuali, spazi inesauribili di archiviazione. Gli archivi virtuali risolverebbero perciò il problema della quantità di sapere. Ma la qualità? La questione dello spazio è prima ancora una questione di tempo. È la velocità, con cui otteniamo e produciamo informazioni, notizie, scoperte, visioni, ad aver sovraffollato lo spazio. Esiste un tempo necessario affinché un pensiero si formi, si armonizzi con un contesto, si affini per diventare raffinato e mai banale o povero, ricco invece di quelle sfumature fondamentali per gestire la complessità del mondo. E questo pensiero deve essere il risultato di una fatica, intellettuale sì, ma anche fisica: la ricerca, la lettura, il confronto, la capacità di argomentare i contenuti della mente e di verificare l’attendibilità delle fonti, sono passaggi obbligati. Il pensiero vive di lentezza, di pause, di ritorni, di sedimentazione, per evolvere. La scrittura, che deve essere esigenza di fermare parole e pensieri, per poterli guardare dall’esterno, una volta fuori dalla nostra testa, non può che rispecchiare questa andatura lenta. Bisogna sporcarsi le mani di inchiostro, sentire le lettere sotto i polpastrelli e la stanchezza dei polsi per accorgersi che quei pensieri sono davvero nostri; che sono frutto di qualcosa che abbiamo custodito, coltivato, tenuto a mente ma anche a cuore, prima di esprimerlo.
In questo scenario la macchina da scrivere merita una riflessione a sé. E non solo perché tornata in uso all’interno di un progetto scolastico, come racconti nella tua mail. C’è un fascino senza tempo in questo oggetto che sta un po’ a metà strada tra carta e penna e schermi retroilluminati, e che in un certo senso ne mantiene la continuità. Il rumore dei tasti che imprimono le lettere sulla carta, il rullo che facciamo scorrere man mano che procediamo nella scrittura, il tintinnio che ci avverte quando arriviamo al margine e dobbiamo andare a capo. Tutti questi suoni sono la colonna sonora della scrittura, quella del nostro pensiero che prende corpo sulla superficie del foglio. Guardando qualcuno scrivere a macchina (per chi ne ha avuto la fortuna) potremmo quasi dire, prendendo in prestito le parole di Rosi Braidotti, che sta “pensando con le proprie mani”.
È vero, la comodità e la funzionalità della scrittura liquida è innegabile, e non è certo questa una crociata contro il progresso tecnologico. Ma il ritorno ad uno strumento del passato forse ci può dire che non tutto ciò che sta in quel passato è obsoleto e quindi inutile.
Ti chiedi a quanto servano iniziative limitate e isolate se poi fuori dall’aula si torna a digitare senza alcuno sforzo su schermi piatti e tutti uguali pensieri rapidi, contratti al massimo nella forma, ridotti all’osso. Qui potrebbe allora risuonare in noi, a proposito di scuola, il ricordo di quegli insegnanti che, svolgendo con passione il loro lavoro, dicevano a sé stessi che se avessero fatto innamorare anche un solo studente di Dante o di Platone ne sarebbe valsa la pena. Forse quello di cui oggi abbiamo più bisogno è di innamorarci come corpi, diventando portatori dei segni e delle cicatrici del tempo che raccontano la storia di quell’amore, tutt’altro che liquido. Un amore carnale.
Se come dice Wittgenstein di ciò di cui non si può parlare bisogna tacere, la scrittura, quella che nasce dall’azione dei nostri corpi reali, non virtuali, può a sua volta dare corpo alla nostra voce. Ma per farlo deve aprire a quella voce interiore un varco. E quella soglia, tra dentro e fuori, va percorsa, mettendosi in cammino, sfidando la forza di gravità, come dice Nietzsche.
Così, parafrasando Alda Merini, scegliendo con cura le parole da non dire riusciremo persino a scrivere il silenzio.
Derrida, che non ha conosciuto il digitale, pensava che la scrittura facesse la differenza perché lascia traccia di sé, indipendentemente da un possibile destinatario. Oggi invece si scrive principalmente o unicamente per essere letti. Può stare anche qui il valore della scrittura su una Olivetti?
Maria Luisa Petruccelli
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