Filosofia
“Scripta volant”: i tweet della politica
Caro Cigno Nero,
guardando ai fatti che stanno travolgendo la politica italiana, mi è venuto naturale chiedermi che fine abbia fatto il valore della parola. Della parola detta e scritta, ma anche della “parola”, intesa come “ti do la mia parola”, come patto, promessa, contratto. Certo, in politica, anche nella prima repubblica c’erano gli eletti che non mantenevano le promesse, per non parlare dei corrotti, ma avevano dalla loro almeno l’oblio e la mancanza di così tante “prove”. Oggi però la politica si è spostata sui social, e restano i tweet, le immagini dei leader che oggi adorano Napoli come Bolzano, ma che in un passato non troppo remoto bevevano dalla sacra ampolla vestiti da vichinghi, inneggiando a un fantasioso stato indipendente. E c’è anche chi, dall’alto del suo improvviso consenso, voleva togliere la parola ai piccoli partiti al 2%, ed ora, ritrovatosi in un partito al 2%, si concede il lusso di far esplodere una crisi di governo in piena pandemia.
In tutto ciò l’indifferenza, o forse assuefazione, alla “sparata” del momento è la cosa che più mi lascia incredulo. Ma che fine ha fatto il valore del “dare la parola”, della stretta di mano guardandosi in faccia nel mondo posticcio dei social?
Martin
Caro Martin,
giusto tre settimane fa si parlava su questa rubrica del valore politico delle parole, perché capaci di realizzare la condizione umana della pluralità. Scrivevamo di quanto esse non siano innocue: non lo è il “tarata” con cui l’insegnante si appella a me quando non riesco in un semplice calcolo, né lo “sporca negra” con cui mi definiscono i compagni sui social.
Puntualmente, a fronte delle conseguenze, si finisce poi per minimizzare le parole con un “era tanto per dire”, o per giustificarle in nome del luogo comune per cui “non contano le parole, contano i fatti”. C’è un elemento che distingue la comunicazione autenticamente dialogica da qualsiasi altra: la fiducia, che non è proprio una quisquilia. È la fiducia che ci porta a intenderci su quanto ci diciamo, ed è la medesima che sperimentiamo di fronte a un “ti amo”, in cui non è in gioco una promessa impossibile, né un contratto giuridico, ma un patto non scritto di sincerità in una posizione reciproca proprio di quella fiducia, perché so che quella persona coincide con la verità della sua parola. L’amore potrà poi pure finire ed io soffrirne, ma non recriminerò una menzogna.
Questo è “darsi la parola”. Essere uomini e donne “di parola” significa disporsi da ambo le parti nella dimensione della fiducia.
La voce “fiducia”, allora, è decisiva anche nel vocabolario della politica. Certo, nettamente più in voga è il suo contrario, la sfiducia; la dimensione social cui fai riferimento, però, ha permesso uno slittamento di significato non proprio innocente. Ce lo indica l’inglese, che traduce “fiducia” con “confidence”: il mondo social ha trasformato la diffidenza che abbiamo verso le istituzioni – che non hanno volto, nome o cognome – in confidenza verso il politico in carne e ossa. È una confidenza che abbiamo acquisito nell’esatto momento in cui le sue dichiarazioni si sono trovate perfettamente inserite nel guazzabuglio indistinto del mio account. Placidamente a proprio agio tra i post di ciclismo, i ricordi dell’amica di prima elementare e le ricette del mio gruppo gourmet, i suoi tweet sono diventati così “di casa”, da confondere le acque e farci dimenticare che il rappresentante politico non può e non deve scrivere come un privato cittadino che affoga nel solito soggettivismo esasperato, ma nel suo ruolo pubblico di rappresentante del bene comune.
A proposito di scrittura, Platone ne fu un grande detrattore, eppure scrisse, come unico modo per lasciare traccia. Dopotutto, “verba volant, scripta manent” siamo abituati a pensare, ma noi lo pensiamo con un fine ben diverso rispetto al filosofo, perché lo pensiamo in uno sfondo di sospetto generale, ed è così che ci sembra di scrivere di cose davvero importanti solo quando la fiducia manca, al lavoro o in ogni ambito in cui ne vada dei nostri interessi, perché ciò che ci è dovuto – che sia anche giusto è un altro paio di maniche – resti nero su bianco.
Dicevamo che Platone scrisse, e lo fece nella forma del dialogo, la più vicina alla parola viva. Sta qui la grande invenzione social: un dialogo universale e pubblico, in un luogo tanto virtuale, quanto tracciabile. La nostra “tracciabilità”, però, ha molto poco a che fare col “lasciare traccia” di Platone, perché noi siamo con tutte le scarpe dentro ad un regime, nel “totalitarismo della tecnica”, in cui – parafrasando Anders – ciò che abbiamo costruito ci sfugge di mano, al punto che in rete va tutto al contrario, e gli “scripta volant”. Così, pure gli scripta dei politici “volant” nell’etere, per dileguarsi nel regno dell’effimero insieme a una miriade di emozioni, vissuti e informazioni altre, accomunati solo dal loro essere prềt-à- porter, alla stregua di qualsiasi accessorio di moda.
Che colpa ha la politica? Bauman rileva quanto essa abbia appreso dal marketing, che, sotto l’apparenza di rispondere ai bisogni, li crea. Allo stesso modo si comporta il nostro politico: se da una parte gioca sulla confidenza e si mostra uno di noi, con pregi, difetti e contraddizioni, dall’altra affonda su ciò che ci rende vulnerabili, la paura in primo luogo, per trarne vantaggio. É così che, tra un intrattenimento e l’altro, assesta un colpetto qua e uno là alla nostra ansia. Dopotutto, «uno principe savio», scriveva Machiavelli, deve «pensare uno modo per il quale li sua cittadini, sempre et in ogni qualità di tempo, abbiano bisogno dello stato e di lui; e sempre poi li saranno fedeli». E contro il pericolo di mali estremi, di un virus o dello straniero cui un governo incapace non sa far fronte, il politico dovrà pur sfoderare rimedi estremi, che non possono stare ad attardarsi dietro a questioni di principio o alla coerenza rispetto al passato.
In questo clima, che fine abbia fatto la verità della parola non è dato sapere. Se nella prima Repubblica era lei ad essere in gioco, la verità contro la menzogna, da intercettare come detective nel groviglio di voci politiche che correvano sui cavi telefonici, oggi non si tratta nemmeno di menzogna, semplicemente perché non importa della verità, “delle sensate esperienze e necessarie dimostrazioni”; importa che il nostro confidente politico sia lì, vicino a noi, e prometta di salvarci.
È con questo spirito che lo eleggiamo, non perché dica la verità, non perché abbiamo fiducia in lui, ma – tornando a Machiavelli – perché gli siamo fedeli, nel senso della fede e delle promesse di fede. La fede, in fondo, ci ha sempre sollevati dalle verità scomode e da conquistare, dalla fatica del districarsi tra i labirinti della menzogna. E se abbiamo fede in qualcuno, leggere, studiare, informarsi, diventano attività inutili, non servono più. C’è però un enorme “ma”: quanto meno si legge, tanto più ciò che leggiamo è pericoloso. Ce lo sbatte in faccia l’ennesima giovane che per cyberbullismo si toglie la vita, colpita da parole scritte e lette senza disposizione di fiducia.
Sono tante le parole che colpiscono, ma poche le parole che restano. Le parole della politica “volant” e non sanno più restare, perché parlano delle “cose”, di bonus economici o di sicurezza. E le cose sanno solo colpire. Giustizia, lealtà ed equità, invece, non colpiscono, perché non sono cose. Sono valori, che, tornando a Platone, per essere veri, per restare, necessitano del nostro apporto, necessitano di partecipazione.
Se il “ti amo” resta e sa restare, lo “sporca negra” colpisce e non sa restare. Lo ha sostenuto quella ragazza che non ha saputo restare. Con che faccia dirle che, in fondo, quelle non erano parole importanti? Come dirle, sempre con Platone, che delle cose importanti non si può scrivere? Si può solo partecipare a ciò che è importante perché ciò che è importante resti. Se un compagno soltanto avesse scelto di partecipare, se solo si fosse messo con lei nella disposizione di fiducia. Magari anche lei sarebbe restata.
Questo non è un discorso altro rispetto alla politica di cui parli, perché anche la politica vuole la fiducia ‒ quindi partecipazione ‒ per restare. Non la fede, non la confidenza. Si fida il cittadino, fedele è il suddito.
Le cose, come ogni “proprietà”, si possono ottenere ma anche perdere. Il bene comune, così come pure le idee, non ci possono essere sottratti, perché non hanno proprietà. Allora, non sarebbe forse meglio che le parole fossero a disposizione delle idee, del bene “comune”, più che delle cose? Non rischiamo altrimenti di perderle, perdendone il valore?
Irene Merlini
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