Costume

Ritorno alla normalità. Ma quale?

13 Maggio 2022

Caro Cigno Nero,
da alcuni mesi si sentono frasi come queste: “Finalmente si torna alla normalità!”, “Ho solo voglia di normalità”.
L’idea perseguita ossessivamente è proprio “Normalità”. Questa condizione, ora tanto invocata, sembra voler rimpiazzare quella di eccezionalità ed emergenza sanitaria che ha provocato malattia, disagi e malessere, oltre a moltissimi decessi.
Quindi il ritorno alla normalità (del vivere e dell’agire) riguarda direttamente le nostre abitudini più consolidate e la quotidianità dei nostri comportamenti. Ma l’imprevedibilità messa in evidenza dai più recenti drammatici avvenimenti, mentre per un verso rende quasi impossibile la noia, dall’altro ci impone di capire che significa per noi “normalità”: rispetto delle regole più utili per la collettività (Regolarità); o, al contrario, rifiuto di ogni regola imposta dalle autorità o dal vivere civile, per sentirsi finalmente liberi di fare qualunque cosa?

Veronica D.B.

 

Cara Veronica,
se pare si stia tornando a quella normalità tanto ossessivamente perseguita dal 2020 a questa parte, il paradosso è che sia proprio l’eccezionalità degli ultimi drammatici avvenimenti bellici ad esserne la riprova.
Questa apparente contraddizione significa molte cose, e la prima è che la normalità non è un’idea semplice, pacifica e tranquilla, quanto piuttosto torbida, ambigua e non del tutto virtuosa.
Ce lo ha insegnato Foucault su tutti, quando ha decostruito il concetto di normalità, scoprendo in esso una manovra ad opera dei dispositivi di potere al solo fine di poterci sorvegliare ‒ e punire in caso di devianza ‒.
“Normale” viene da “norma”, cioè regola, intesa come modo di essere che rispecchia uno standard, come pratica comportamentale e di pensiero stabilita da ciò che fanno e pensano i più. E questa normalità, sebbene non “normativa” in senso stretto, diventa comunque prescrittiva nel momento in cui lo sconfinamento dal limite della medietà è vissuto, o viene fatto vivere, come anomalia ‒ se non come colpa ‒ da riportare immediatamente nei ranghi, ed eventualmente meritevole di ammenda (sia essa un atteggiamento escludente, un rimprovero o un “semplice” sguardo).
Proprio la correlazione tra “normale” e “normato”, cui in qualche modo accenni nella domanda in chiusura, si fa particolarmente interessante rispetto alla situazione pandemica. Quando il virus ha fatto irruzione nel nostro mondo, ci siamo sentiti gettati in una situazione assurda: nulla più era normale, così tutto è diventato normato. È successo, allora, che questo prontuario normativo di divieti e prescrizioni si è fatto carico di costruire per noi una nuova normalità, alla quale ci siamo talmente abituati che tuttora, nonostante le maglie si siano allentate, non ci sembra più normale abbracciare la cara amica che non vedevamo da mesi; nonostante ci sia consentito “smascherarci”, non ci sembra più normale roteare tra le corsie del supermercato con la faccia nuda. Insomma, in assenza di normalità è stata la normativa ad assumere una funzione normalizzante. Tra i due termini, allora, sembra sussista una relazione inversamente proporzionale, perché quando, viceversa, vivevamo  periodi di ordinaria normalità, la normativa la percepivamo quasi assente, nel senso che restava sullo sfondo.
Fatto sta che “normale” per noi ha sempre significato ciò che rassicura, stabilizza, perché conferma, non sconvolge né stravolge.
Chissà se il fisico e filosofo Thomas Kuhn, che ha parlato di normalità accostandola alla scienza, ambito inconsueto per questo vocabolo, può dirci qualcosa in merito. Egli definiva di “scienza normale” quei periodi in cui la comunità scientifica certamente procede, continua a sperimentare, verificare e dimostrare, ma lo fa sempre all’interno di un “paradigma”, cioè dentro i confini di precise teorie che, essendosi dimostrate valide, vengono accettate senza essere più messe in discussione, contribuendo a costruire una visione del mondo, della natura e dell’essere umano. Poi però, nel corso della storia, accade che sopraggiungano eventi sconvolgenti e inaspettati, una serie di anomalie di fronte a cui il vecchio paradigma resta basito e non sa che pesci pigliare. È da qui che nascono le rivoluzioni scientifiche, da questi periodi di “scienza straordinaria” in cui nuove teorie scendono in campo e se lo contendono, finché un nuovo paradigma entra in scena soppiantando definitivamente il precedente, rispetto al quale è incommensurabile (giacché quello si era già dimostrato inefficace) e neppure si mette in competizione. Kuhn intende dirci che le rivoluzioni scientifiche stravolgono il mondo definitivamente, perché ci portano a guardare diversamente ma anche a guardare altrove, determinando nuovi orizzonti e nuovi linguaggi, dentro cui si riprenderà a sperimentare, verificare, dimostrare, e dentro cui si ricomincerà a vivere.
Cosa c’entra adesso tutta questa digressione epistemologica? Non siamo una comunità scientifica, ma come comunità umana vivevamo una “vita normale” prima del Covid, coi nostri valori o non-valori che, seppur nella loro liquidità, guidavano le nostre esistenze  o, quantomeno, permettevano loro di galleggiare. Poi è arrivata la botta pandemica che ha sparigliato tutto: in mezzo al dolore, allo spaesamento della scienza, alla tragedia del non-senso in cui sono naufragate le nostre vite, tra solitudini, ansie, insonnie, il nostro vecchio paradigma si è dimostrato insufficiente. “Quando tutto passerà, non saremo gli stessi”,“Nulla più sarà come prima”, “Ne usciremo cambiati, ne usciremo migliori”, ci siamo detti all’unisono e con la convinzione solenne di una promessa, più che di una previsione.
Allora, come nei periodi di “scienza straordinaria”, abbiamo preso a mettere in discussione la nostra vita precedente, il modo ‒ improvvisamente tutto sbagliato ‒ che avevamo di gestire il tempo e le relazioni, imparando ad apprezzare quelle che prima ci parevano inezie e sovvertendo l’ordine delle priorità. L’assenza del tatto, tanto per fare un esempio, ci ha aiutato a sviluppare altri sensi, come la delicatezza dell’ascolto, la sensibilità dello sguardo attento, una nuova educazione del gusto nella riscoperta di certi piaceri. Sembrava insomma che un orizzonte altro fosse alle porte. E poi? Quando la pandemia allenta la sua morsa, che accade? Si snoda una guerra “quasi-mondiale” che mette in scena le note dinamiche prepotenti e interessate ‒ ma non ci dicevamo che nulla sarebbe stato più come prima? ‒, mentre la nostra vita, tutto sommato, preferisce girarsi dall’altra parte perché è concentrata a riprendere i vecchi ritmi dimenticati e che avevamo giurato di modificare ‒ ma non eravamo noi quelli che dovevano uscirne cambiati? Migliori? ‒.
Allora, se è vero che la scienza, seguendo lo schema di Kuhn, dopo una rivoluzione cambia e non torna indietro, per l’umanità pare non sia così, perché forse siamo tornati quelli di prima, come se nulla fosse accaduto. Una cosa quindi la possiamo dedurre: la scienza può mettere in campo tutti i paradigmi che vuole per normalizzare sé stessa e tutto ciò che sembra sconfinare, ma quando incontra l’umano non c’è schema né normalità che tenga e che riesca a ingabbiarlo, perché il fattore umano è imprevedibile, eccede sempre.
Ripensiamo un attimo alle nostre singole vite prima del 2020, e cerchiamo di ricordarci quanto e quando davvero ci sono sembrate placide e normali, tra periodi in cui per noi si affastellavano mille disgrazie e quelli in cui tutto ci girava fin troppo bene, in un andamento così altalenante che quando vivevamo momenti senza colpi di scena ce li andavamo a cercare.
Paradossalmente, è stato con la pandemia che ci siamo sentiti per la prima volta dentro uno standard: tutti normali, perché tutti passeggeri della stessa classe sul medesimo treno, senza possibilità di scendere a piacimento a qualsiasi  stazione. E adesso succede che, come il Covid sembra darci una tregua, alla prima sosta di quel treno filiamo via come anguille, ciascuno per la sua strada, ognuno solo con la sua libertà, perché abbiamo scoperto ‒ insieme a Foucault ‒ che stare tutti chiusi come sardine dentro uno standard non è poi così naturale. Nulla di criticabile nell’insofferenza del vivere la normalità che si scopre costrizione. Sarebbe bello, però, conservarne memoria quando, uscendo dall’emergenza sanitaria, incontreremo tutte le eccezioni che a quello standard non si piegano, né appartengono.

Potrebbe essere che dietro quel “ritorno alla normalità” non ci sia nulla di nostalgico, quindi di legato al passato, ma piuttosto un desiderio d’altro tipo? E se si trattasse del desiderio di un “ritorno al futuro”?

Irene Merlini

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