Filosofia
Rider e driver: persone dietro l’algoritmo
Quando li vedo muoversi nel traffico della città con la determinazione dei guerrieri e quell’enorme cubo porta cibo sulle spalle, mi chiedo a cosa pensino durante la corsa. Forse a quante consegne hanno già fatto quel giorno, a quante ne faranno, quanto manca per arrivare a destinazione o per accumulare uno stipendio mensile dignitoso.
Ecco, con Algoritmo, il documentario che mi è stato commissionato dalla Fit Cisl del Lazio, che tanto per intenderci è il sindacato che si occupa di trasporti, ho avuto modo di saperne di più sui rider. E non solo su di loro, ma anche sui driver di Amazon, sfiancati da ritmi di lavoro dettati dal solito algoritmo che alla fine è molto meno organizzato di quanto pensiamo e, soprattutto, è un datore di lavoro senza umanità. Si parla tanto di rider e driver e della mancata tutela lavorativa, ma come al solito tanta informazione non fa più notizia. In aggiunta c’è il fatto che ci sentiamo anche un po’ complici di quello sfruttamento perché ci indigniamo, ma poi ordiniamo la pizza in una giornata di pioggia dal traffico impazzito, o esigiamo la consegna in giornata dell’ultima trovata hi-tech. E loro, driver e rider, ci ringraziano perché più consegnano e più guadagnano.
Riguardo al documentario, che si trova a questo link , ho cercato di far emergere il lato umano della questione e di mostrare come la condivisione e l’unione tra i lavoratori attraverso il sindacato sia l’elemento vincente a difesa dei diritti. “L’unione fa la forza” è un detto un po’ démodé che però assume una nuova veste con l’idea del sindacato che dà realmente voce a chi non ne ha e si pone a fianco degli sfruttati per antonomasia.
Questa l’esperienza sul campo e quello che ti chiedo cigno nero, riguarda la parola “algoritmo”, che governa il lavoro fragile, ma anche le nostre vite digitali influenzando pesantemente quelle reali. Secondo te che tipo di nemico è? Un killer spietato? Un servitore subdolo? Un conoscente servile? E, soprattutto, il suo potere ci travolgerà?
Un saluto, Patrizia
Cara Patrizia,
come è possibile che quello stesso mondo che all’occorrenza possiamo rimpicciolire grazie all’aiuto della tecnologia che ha ridefinito i concetti di spazio e tempo, permettendoci di colmare ampie distanze in poche ore e di raggiungere chiunque restando seduti sul nostro divano – un mondo diventato un unico villaggio globale, come aveva intuito Marshall McLuhan – per qualcuno sia invece rimasto fin troppo vasto da percorrere in un tempo che sembra non bastare mai? È questa la prima domanda che il tuo documentario impone; un racconto per immagini e testimonianze attraversato dal tema della distanza, quella tra l’algoritmo e le persone. Una distanza che si fa differenza incolmabile, ma che rider e driver continuano a percorrere, pedalata dopo pedalata, chilometro dopo chilometro, nel minor tempo possibile, rendendo sopportabile la nostra attesa fino a farla quasi scomparire. Tutto per racimolare una somma appena sufficiente di denaro a fronte di rischi e condizioni di lavoro che di umano hanno ben poco. All’altro capo della distanza, oltre al “datore di lavoro senza umanità”, ci siamo perciò anche noi, indignati e complici allo stesso tempo, come scrivi, che godiamo, insieme alle grandi aziende da cui acquistiamo, dei benefici del progresso tecnologico. Immersi nel virtuale, nelle nostre vite digitali fatte di assenza di corpi, in relazioni prive di reciprocità di pensiero, desiderio, come pure di fragilità, tendiamo a dimenticare che dietro quel virtuale ci sono ancora persone reali, che non si esauriscono nel ruolo che l’algoritmo ha creato per loro. Indignati e complici allo stesso tempo perché la nostra indignazione non ha consistenza, non ha più volti e corpi su cui posare lo sguardo, anche quando corpi e volti ce li ritroviamo sulla soglia di casa, nel tempo breve della consegna che ha catalizzato il nostro ultimo desiderio (prima che venga sostituito dal prossimo) che del desiderio ha conservato ben poco, spogliato com’è delle energie investite e della tensione continua che lo alimenta.
E così, travolti dal privilegio di poter estromettere l’attesa dai nostri giorni a spese del lavoro fragile di altri, abbiamo finito col privarci del senso profondo di ogni vigilia, del tempo dei preparativi, di tutti i piccoli rituali, dei tragitti da percorrere con l’imprevisto dietro l’angolo che diventa opportunità, di ogni gesto che riempie il prima e ne fa un momento a sé, completo così com’è. A rider e driver, invece, della vigilia non resta che una veglia senza sonno, scandita da ritmi incessanti, da un’attesa che sembra non aver fine, come i loro turni stremanti, e che non lascia intravedere la promessa di condizioni migliori.
Ti interroghi sulla natura dell’algoritmo, sulla sua incidenza nelle nostre vite così come in quelle di una categoria di lavoratori che sono, nella loro fragilità, anche spesso invisibili, ma che ora, grazie all’iniziativa dei sindacati possono esserlo un po’ meno. Ti chiedi, nello specifico, che tipo di nemico sia l’algoritmo. Ma dietro l’algoritmo ci sono sempre persone, e non sono solo i rider e i driver, ma anche chi programma quel sistema per gestire le consegne, e nel farlo decide di ignorare i fattori prettamente umani. L’algoritmo, per quanto tendiamo a dimenticarcene, è frutto di quello che noi vogliamo da lui. Se è diventato un nemico è perché noi glielo abbiamo permesso: ogni volta che ci siamo fatti sedurre dalle sue potenzialità illimitate e incantare dalle sue promesse, affidandoci ad una semplificazione che, mentre avvantaggia una parte di noi, ne danneggia un’altra. Si tratta, in un’ottica più ampia e soprattutto sociale, di un problema etico, perché ha a che fare col profitto di chi si trova in una posizione di potere in relazione ai diritti e alla dignità di chi è mosso dal bisogno.
Crediamo che la tecnologia sia sempre al nostro servizio, ma la dialettica servo-padrone di Hegel ci svela che il padrone, affidandosi al servo per ogni aspetto della sua vita, finisce per diventarne dipendente al punto da non poterne fare più a meno; in altre parole, il padrone diventa asservito al suo servo. E forse non aveva tutti i torti Günther Anders quando diceva che nel nostro rapporto con la tecnologia siamo come sotto un incantesimo: mentre ci illudiamo di avere ogni cosa sotto controllo, grazie all’algoritmo che gestisce tutto al nostro posto, non ci rendiamo conto che, qualora lo volessimo, non saremmo in grado di fermare il processo cui abbiamo dato vita. Tutto si riduce a premere un tasto per vedere se succede quello che deve succedere, senza chiederci se sia giusto o sbagliato. Premendo quel tasto, comodamente seduti sul divano di casa, ogni nostro desiderio può realizzarsi ma a quello che i nostri desideri comodi hanno messo in moto là fuori non pensiamo mai. Non ci pensiamo perché, come l’algoritmo, non vediamo persone oltre quel tasto, ma solo il potere della tecnica al nostro servizio. Se questo potere ci travolgerà o ci ha già travolti è difficile da dire. Rifiutare però la tecnologia perché magari ha imboccato una strada pericolosa non può essere la soluzione del problema. Piuttosto, pensare in altro modo ciò che già abbiamo o con cui dobbiamo rapportarci può essere un buon inizio. Certo non è facile perché dobbiamo fare i conti con l’abitudine, ma vedere persone dietro l’algoritmo significa recuperare una tradizione narrativa fatta di presenza nell’ascolto e nelle parole, significa essere ancora in grado di uscire dal sistema virtuale per entrare nel vivo delle storie. Storie a cui tu hai dato un volto e un nome, come quella di Fressy, che aveva paura a tornare in strada dopo essere stata aggredita durante il turno di consegna (da un uomo che le ha versato una birra addosso), ma a cui piace fare la rider, nonostante tutto, anche se sogna di aprire un giorno un negozio di abbigliamento. O come quella di Giuseppe, che fa il driver per Amazon e sta sul furgone dieci ore al giorno, senza la possibilità a volte di usare un bagno; che in alcuni giorni gira sulle stesse strade anche fino a quattro volte perché il navigatore non è aggiornato, ma che riesce ancora a scherzare su quel sorriso che è il logo impresso su ogni pacco dell’azienda per cui lavora.
Allora in questo tempo che è vigilia e quindi attesa ma anche momento di buoni propositi, qualcosa nel nostro piccolo forse possiamo farla anche noi: fare pace con quella parte della nostra infanzia in cui abbiamo scoperto che Babbo Natale non esiste riconoscendo a ognuno di questi nuovi Babbo Natale un nome e un volto, se non altro perché, dietro quel nome e quel volto c’è, per quanto frivolo o comodo, un nostro desiderio esaudito.
Questo lavoro fragile, che tuttavia ha ancora un senso per chi lo fa, pare sia destinato a scomparire. Tra qualche anno, come già sta succedendo in alcuni paesi, rider e driver saranno probabilmente sostituiti da droni e veicoli senza guidatore. Se per qualcuno sembra così risolversi il problema dell’aspetto alienante di un lavoro ripetitivo e parcellizzato oltre che faticoso, non possiamo non vedere l’urgenza di una domanda che dovrebbe inaugurare ogni nuovo rapporto tra esseri umani e tecnologia: si tratta davvero di un vantaggio per le persone?
Nella tua mail facevi anche riferimento a un libro scritto da Caterina Mangia, che ha indagato la questione da dentro il sindacato. Un libro che ha lo stesso titolo del tuo documentario e che tutti possono leggere qui
Ho pensato di inserirlo alla fine del nostro scambio perché può essere una seconda occasione per regalarci, una volta tanto, storie, a costo zero ma dal valore non quantificabile.
Maria Luisa Petruccelli
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