Filosofia
Quella felicità da tempo dimenticata
“Quando leggete Tolstój, lo leggete perché non potete smettere”, scriveva Vladímir Vladímirovič Nàbokov in anni ormai distanti.
Oggi, al tempo del coronavirus, non mancano coloro che cercano in Guerra e pace (“Bойна и мир”, 1865-1869) – sollecitati ancora in questo da scrittori di rango che ne raccomandano a gran voce una (ri)lettura attenta e motivata – parole forti e luminose, di cui abbiamo forse più bisogno adesso che vivente Lev Nikolàevič Tolstój (1828-1910).
Guerra e pace è, innanzitutto, un romanzo a tesi in cui la Storia con la esse maiuscola (dove il ruolo dei protagonisti va però largamente ridimensionato) e le storie (piccole o minuscole, pubbliche o private) di numerosi personaggi si intrecciano e si accavallano, seppure a determinate e ineludibili condizioni, connaturate queste al significato più profondo – ma anche più nascosto e misterioso – dello stare al mondo.
Tolstój espone il suo pensiero a più riprese nel corso del monumentale romanzo, talvolta in modo esplicito ma più spesso tra le righe, dedicandovi organicamente l’intera sezione conclusiva dell’Epilogo.
Da un lato, a Tolstój sta a cuore la dialettica fra “guerra” e “pace” e ben spiega in cosa questa consiste Leone Ginzburg nella prefazione alla edizione Einaudi del romanzo:
È fondamentale, in Guerra e pace, la differenza fra personaggi storici e personaggi umani. I personaggi umani – si tratti di Natàša, di Pierre, del principe Andréj o anche dei più insignificanti – amano, soffrono, sbagliano, si ricredono, cioè, in una parola, vivono; mentre gli altri sono condannati a recitare una parte che non è scritta da loro, anche se tutti – tranne forse Kutúzov – s’immaginano d’improvvisarla […] “Guerra” è il mondo storico, “pace” il mondo umano […] Il mondo umano interessa ed attrae particolarmente Tolstój soprattutto perché egli è convinto che ogni uomo – di ieri, di oggi, di domani – valga un altro uomo […]
Scrive Tolstój effondendosi a piene mani in pagine che trascendono la dimensione narrativa per approdare a quella storico-filosofica:
In ogni uomo vi sono due aspetti della vita: la vita personale, che è tanto più libera quanto più astratti sono i suoi interessi; e la vita elementare, la vita di sciame, dove l’uomo obbedisce inevitabilmente a leggi che gli sono prescritte. L’uomo vive consciamente per sé, ma serve come uno strumento inconscio per il conseguimento dei fini storici dell’umanità in generale […] La storia, cioè la vita incosciente e comune, la vita di sciame dell’umanità, si avvantaggia per sé di ogni momento della vita dei re, come di un mezzo per raggiungere i propri fini.
Dall’altro lato, a Tolstój preme la dialettica fra “libertà” e “necessità”, sovraordinata alla dialettica fra “guerra” e “pace”:
Posso certo decidere di sollevare e abbassare la mia mano, ma lo farò nella direzione in cui essa incontra meno ostacoli […] Per rappresentarci un uomo libero dobbiamo rappresentarcelo fuori dello spazio, il che evidentemente è impossibile […] Rappresentarsi un uomo che sia privo di libertà non è possibile, se non rappresentandoselo privo di vita […] Così, per rappresentarci l’azione di un uomo sottomesso alla sola legge di necessità, senza libertà, dobbiamo ammettere la conoscenza di una infinita quantità di condizioni spaziali in un infinito periodo di tempo e per una infinita serie di cause. Per rappresentarci un uomo assolutamente libero, non sottoposto alla legge di necessità, dobbiamo rappresentarcelo fuori dello spazio, fuori del tempo e indipendente dalle cause.
Erano anni che il Narratore sognava di realizzare la versione integrale in audiolibro di Guerra e pace: un progetto molto ambizioso anche soltanto per la mole di lavoro da affrontare. Alla fine il sogno si è trasformato in realtà e Moro Silo, interprete lettore della prima ora della casa editrice vicentina, non si è certo risparmiato, caratterizzando come di consueto voci e ruoli con meticolosa perizia e valorizzando la profondità e la raffinatezza dell’analisi psicologica dei numerosi personaggi dispiegata da Tolstój: cosa questa che costituisce uno degli elementi di maggiore attrattiva del romanzo; il risultato finale offerto da Moro Silo, peraltro, evidenzia una sorprendente uniformità di rendimento e di continuità – in termini di aderenza e immedesimazione, espressiva e psicologica, nonché di credibilità e plausibilità – dei personaggi rappresentati.
Fin dall’inizio del romanzo, Moro Silo si misura con i capitoli dedicati al ricevimento a casa di Anna Pàvlovna Scherer, in cui Tolstój introduce i primi fra i personaggi principali del romanzo sottolineandone i tratti distintivi. A questo ricevimento prende parte “tutta l’élite intellettuale di Pietroburgo”, compreso l’impertinente Pierre Bezúchov che di Tolstój è l’alter ego e che non rinuncia a dire la sua in questa “fiera della vanità”. Bezúchov è goffo, imponente e maldestro, ma temutissimo dalla padrona di casa perché si distingue moralmente dalla “geografia umana” che lo circonda e quindi va tenuto d’occhio e, se del caso, contenuto:
Anna Pàvlovna lo salutò con il breve inchino che riservava alle persone della più bassa gerarchia nel suo salotto. Ma, nonostante quel saluto di qualità inferiore, alla vista di Pierre sulla faccia di Anna Pàvlovna si dipinse l’inquietudine, e un timore simile a quello che si esprime alla vista di qualcosa di troppo enorme e fuori posto. Tuttavia, benché in effetti Pierre fosse parecchio più grosso degli altri uomini nella stanza, quel timore poteva riferirsi solo allo sguardo intelligente e insieme timido, attento e naturale, che lo distingueva da tutti gli altri in quel salotto.
Ma “gli altri” chi sono? Illustri esponenti della futilità:
Il visconte [Montemart] era un giovane di bell’aspetto, dai lineamenti e dai modi dolci, che certo si considerava una celebrità, ma per buona educazione lasciava modestamente che la società in cui si trovava godesse di lui. Era evidente che Anna Pàvlovna lo stava offrendo ai suoi ospiti. Come un bravo maggiordomo fa servire come una prelibatezza soprannaturale un pezzo di manzo che nessuno vorrebbe mangiare vedendolo in una cucina sudicia, così quella sera Anna Pàvlovna ammanniva ai suoi ospiti prima il visconte, poi l’abate [Morio], come fossero raffinatezze soprannaturali.
Avvenenti rampolle senza “vita propria”, almeno in società:
La principessina [Hélène] appoggiò il braccio tornito e nudo sul tavolino e non ritenne necessario dire nulla. Sorridendo, aspettava. Per tutto il tempo del racconto rimase seduta eretta, lanciando ogni tanto occhiate ora al suo bel braccio tornito, posato leggermente sul tavolo, ora al seno ancora più bello, su cui aggiustava il collier di brillanti; si aggiustò diverse volte le pieghe del vestito e, quando il racconto produceva una qualche impressione, si voltava a guardare Anna Pàvlovna e assumeva subito la stessa espressione che vedeva sul viso della damigella d’onore, per poi tranquillizzarsi di nuovo nel suo sorriso luminoso.
Appassionati cultori della vanagloria, sospesi fra orgoglio e discernimento:
Ma l’influenza in società è un capitale che va amministrato con oculatezza, perché non sfumi. Il principe Vasílij lo sapeva, e una volta compreso che, se si fosse messo a chiedere favori per tutti quelli che gli chiedevano di farlo, ben presto non avrebbe più potuto chiederli per sé, approfittava di rado della propria influenza.
Moro Silo è del tutto a suo agio in queste sapide pagine e, nella veste di interprete lettore, ne ha un po’ per tutti e non lascia fuori nessuno. In un certo senso fa anche lui come Anna Pàvlovna:
Come il padrone di una filanda, collocati gli operai ai loro posti, passeggia per lo stabilimento e notando l’immobilità o il suono insolito, stridulo e troppo forte di un fuso, accorre, lo trattiene o gli imprime il movimento dovuto, così anche Anna Pàvlovna, passeggiando per il suo salotto, si avvicinava a un gruppo ammutolito o troppo animato e con una sola parola o uno spostamento riavviava il meccanismo regolare e composto della conversazione.
La voce di Moro Silo è molto sorvegliata ma sempre all’erta, pronta a scuotersi e a sussultare: così, passando da un personaggio all’altro del ricevimento, è lesta nel cogliere il passaggio dalla dilagante ipocrisia (pur tuttavia accettata come inevitabile da tutti i convenuti, si direbbe) ai rari momenti in cui alcuni fra i presenti gettano la maschera e fanno vedere chi sono realmente: frammenti di umanità autentica che però ne fanno emergere la bruttezza, esteriore e interiore.
A volte queste epifanie suscitano tenerezza e complicità nell’ascoltatore, come all’inizio della seconda parte del romanzo dove Tolstój narra il ritorno a casa in licenza di Nikolàj Rostóv e dell’amico Vassílij Denísov: se il secondo dorme beatamente sul fondo della slitta postale in cui entrambi stanno viaggiando, il primo è impaziente perché non vede l’ora di riabbracciare i suoi cari. Tutta la scena è solcata da una agitazione febbrile che Moro Silo connota trasformando Nikolàj in un una sorta di bambino felice che sgambetta lietamente mentre qualcuno lo solleva in alto per aiutarlo a scaricare la tensione in sovrappiù. Ciò che sta assalendo Nikolàj in questo momento è il bisogno prorompente di ritrovare la “pace” dopo aver fatto la “guerra”: la stessa “pace” che Pierre – catturato dai nemici assieme all’umile Platón Karatàev, con cui fraternizza – continuerà a sospirare anche con una condotta per certi versi poco commendevole. A questo proposito scrive ancora Leone Ginzburg:
Il desiderio di felicità è tanto legittimo che Pierre, nella sua marcia di prigioniero insieme alle truppe francesi in ritirata, si sente sempre più distante da Platón Karatàev, il savio e “rotondo” soldato contadino, a mano a mano che le forze di Karatàev vanno decadendo; e quando i francesi lo fucilano perché non riesce più a camminare con gli altri, Pierre finge con sé medesimo di non essersene accorto, per non menomare con lo spettacolo straziante di una realtà che non saprebbe impedire il nuovo equilibrio morale da lui conquistato in prigionia, e per tanta parte legato all’esempio stesso di Karatàev.
Nella felicità, e nell’ardente desiderio di essa, l’amore ha tanta parte; ecco come Tolstój dà splendidamente fiato a questa congiunzione astrale:
[…] e da quella porta socchiusa a un tratto spirò e investì Pierre quella felicità da tempo dimenticata alla quale, specialmente ora, egli non pensava. Spirò, lo avvolse, lo sommerse; quando poi ella sorrise, non ci poterono più essere dubbi: era Natàša, ed egli l’amava.
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