Filosofia
Quel “gratuito inaspettato” che resiste al profitto
Caro Cigno Nero,
recentemente ho incontrato per caso una mia alunna di circa venti anni fa, che, salutandomi con gioia, ha voluto esprimermi la sua profonda gratitudine. Mi ha colpito la parola “gratitudine”, oggi quasi in disuso, dal momento che nella nostra società sembra prevalere la tendenza di un io tecno-mercantile a pretendere dagli altri, a senso unico, ogni cosa come “dovuta”. Poco tempo fa ho sentito da un telegiornale nazionale che il presidente Erdogan ha palesato l’intenzione di espellere dalla Turchia dei diplomatici, ritenendoli persone “non grate”. Ho riflettuto sulla scelta di questo termine, usato non col significato più diffuso di “non riconoscenti”, ma per dire “non gradite”; “non ben accette”; “non piacevoli”. Peccato che sia sempre più rara la disposizione d’animo implicante, oltre la semplice riconoscenza, sincero affetto per chi ci ha fatto del bene e desiderio di ricambiare il beneficio ricevuto. In questa rete di atteggiamenti di benevolenza, sentendosi parte di un tutto più grande, sembra facile aprirsi alla bellezza e alla significatività della vita, avvicinandosi sempre più alla vera gioia. E allora, perché è così difficile provare il sentimento della gratitudine?
Marirosa
Cara Marirosa,
Il tuo riferimento ad un io tecno-mercantile, inconciliabile con la gratitudine, può essere l’occasione per una riflessione critica su questo sentimento che, troppo occupati a rincorrere un ideale astratto e impersonale di successo, abbiamo lasciato indietro, probabilmente al tempo della nostra infanzia.
I rapporti economici, fondandosi su logiche di profitto e potere – di acquisto, di scambio, di contrattazione – viaggiano su binari diversi rispetto a quelli che dovrebbero tracciare il percorso dei rapporti umani. Il condizionale qui è d’obbligo, dal momento che i due ambiti tendono a coincidere sempre più.
Il sistema economico è incentrato sul binomio domanda-offerta, in un’ottica di previsioni e aspettative. L’inaspettato, che qui non deve trovare spazio (anzi, è piuttosto temuto), è, invece, caratteristica della gratitudine. Se la domanda nel contesto mercantile scaturisce da un bisogno che quasi sempre è indotto, il senso di gratitudine non origina, al contrario, dalla risposta a una richiesta. Quel sentire ci rivela semmai che la gioia può seguire altri percorsi, che non sta solo nella soddisfazione di bisogni o nella realizzazione di desideri, ma anche, e forse soprattutto, in quel famoso inaspettato.
Che succede quando ci troviamo, come nel tuo caso, dal lato di chi riceve gratitudine? Tradotto in termini economici, spostiamoci sul lato dell’offerta: ma le cose qui sono molto diverse perché l’altro ci è grato per qualcosa che gli abbiamo sì offerto – che si tratti del nostro tempo, di aiuto o di una parola di conforto – tuttavia gratuitamente.
Il “suono” della gratitudine, al di là della sua etimologia, ci rimanda così alla ”gratuità”, esclusa da qualsiasi rapporto economico. Il gratuito non si dà al di fuori della relazione, una relazione in cui si decide liberamente di agire a beneficio dell’altro che a sua volta riconosce questo agire per il suo valore slegato da ogni logica di profitto, interesse o convenienza. Ecco perché gratitudine e potere non potrebbero essere più distanti. E a proposito di gratitudine e potere, se è vero che le parole che scegliamo non sono mai solo parole, perché si portano dietro la nostra visione del mondo, i nostri desideri e le nostre convinzioni (anche a livello inconscio, come nel caso dei lapsus), nelle parole scelte da Erdogan possiamo forse scorgere una doppia intenzione di significato. Potrebbe quel “non grati”, riferito ai dieci diplomatici, trattenere in sé i due significati, “grato” e “gradito”, senza escluderne per forza uno? Qui la “persona non grata”, nel senso di non gradita, è una persona non ritenuta meritevole (di ospitalità, attenzioni o stima), perché allo stesso tempo giudicata incapace di riconoscenza, di riconoscere cioè i meriti altrui e i propri limiti. È chiaro che in questo caso siamo di fronte ad una visione distorta della gratitudine, che nella sua unidirezionalità dimentica la reciprocità e sposa in tutto e per tutto il concetto di forza assoggettante.
La gratitudine è un dono, per chi lo fa e per chi lo riceve, e va da sé che, in una società fatta di io convinti che “ogni cosa sia dovuta”, come scrivi, sia quasi un controsenso. Da dove nasce però la convinzione che tutto sia dovuto se non dal vivere e crescere in una società fortemente competitiva? Chi offre gratuitamente qualcosa insospettisce, perché per noi tutto ha un prezzo. E se tutto ha un prezzo, tutto si può comprare. Se poi c’è qualcosa che non riusciamo a comprare, la possiamo sempre ottenere sgomitando tra gli altri, che diventano improvvisamente ostacoli. I rapporti tra persone, in un contesto di questo tipo, non possono che essere retti da una logica utilitaristica, dove i legami sociali diventano strumentali e tutto ci appare contrattabile, compresi i sentimenti. L’altro, quando non è un nemico, resta comunque un rivale con cui competere per conquistarsi una posizione invidiabile, uno status privilegiato. Percependoci come totalmente slegati dall’alterità, concentrati unicamente su noi stessi e sui nostri obiettivi, ci allontaniamo dalla possibilità di sentirci grati e ci volgiamo all’invidia, in una spirale che aumenta il bisogno di sovrastare l’altro. Se non c’è spazio per la gratitudine in una comunità che è la somma di singoli individualismi, di fatto non esiste comunità dove i suoi membri non sanno riconoscersi come fatti anche di reciprocità, oltre che di individualità.
Donare e saper riconoscere il valore di un dono richiedono una certa sensibilità. È questo il solo limite della gratitudine: non essere alla portata di uno sguardo rivolto unicamente al proprio io. Essere ingrati significa allora restare estranei ad una relazione fatta di significati e valori condivisi. Non sta all’io che ha donato, perciò, giudicare gli effetti di quel dono, altrimenti si torna nella logica di mercato basata su domanda e offerta. Allo stesso modo, snaturiamo questo sentimento quando lo traduciamo in nutrimento per il nostro narcisismo, spogliandolo della reciprocità che lo caratterizza e trasformandolo così in un rapporto di potere. Anche perché non si è grati per un favore che fa sentire in debito e condiziona, obbligando quasi a ricambiare.
Come accade per gli altri sentimenti, anche la gratitudine ha a che fare con il modo. Il modo di osservare, interiorizzare ed entrare in contatto con il mondo fuori di noi, a partire da una parola che la gratitudine contiene e supera insieme: “grazie”.
Ringraziare non è solo una maniera educata di stare al mondo. Fin da piccoli ci insegnano a dire “grazie”. Ma per aprirsi al sentimento della gratitudine, quella parola così piccola, una volta pronunciata, dobbiamo essere in grado di riportarla a noi, farla risuonare per capirne l’effetto e provare a svincolarla dal solo momento dello scambio che ci ha spinti a pronunciarla. La gratitudine vive di un tempo dilatato. Non finisce con le parole per esprimerla. Non è mai solo la risposta ad un’attenzione o una premura ricevute. Apre invece alla possibilità di vedere, attraverso la verità di quell’attenzione, di quella premura, una pienezza che si colloca oltre il trascorrere dei singoli giorni. Tutti i grazie che hanno sconfinato da certe formalità sociali, dalla sola educazione impartitaci o da qualsiasi condizionamento, hanno contribuito a creare in noi questo sentire più ampio.
La reciprocità della gratitudine, così lontana dalla consuetudine del do ut des, rivela il desiderio di legami autentici per la sua capacità di andare oltre i vincoli del debito e del credito, dei formalismi che impongono di ricambiare, dei calcoli e delle previsioni su vantaggi e guadagni.
E allora potremmo chiederci: è ancora possibile, come auspicava Kant, agire in modo da considerare l’altro come fine e mai come mezzo? Ma questo presuppone una diversa visione dell’essere umano, un essere umano molto vicino all’homo reciprocus, tratteggiato da Elena Pulcini, consapevole della propria incompiutezza che perciò sceglie di ospitare l’alterità come dimensione interna; un individuo ben lontano dalla “presunta autosufficienza” dell’homo oeconomicus e dalla “narcisistica indifferenza” dell’homo democraticus che rischia di diluire le peculiarità di ogni incontro in un concetto astratto di uguaglianza.
L’homo reciprocus non può però trovare spazio in noi se non siamo disposti a rivedere la nostra idea di “crescita”, provando a tornare, ma come comunità e non come singoli, a quell’infanzia di cui si diceva all’inizio, quella della gioia incontaminata, del sentirsi a proprio agio nell’inaspettato. Scopriremmo così che crescere solo economicamente e ad ogni costo – dove il costo ci rimanda a tutto ciò che ha un prezzo ed è perciò barattabile, contrattabile – può tracciare una distanza incolmabile tra noi e il sentimento della gratuità inaspettata.
Tutto questo ha poco a che vedere con l’ingenuità o il buonismo e molto col sapersi immaginare al di fuori di un paradigma consolidato che abbiamo esteso alla nostra intera vita. E l’immaginazione è anche e sempre questione di cultura, una cultura umanistica che possa insegnarci a pensare insieme, distogliendoci da quella nostra ossessione per il profitto.
Essere grati verso chi conosciamo può sembrare più semplice. Ma, ripensando a quella volta in cui uno sconosciuto ci ha sorpreso per strada con un gesto di gentilezza del tutto “gratuito”, ci rendiamo conto che il senso di gratitudine nei suoi confronti aveva una genuinità che lo “scontato” dei legami affettivi tende un po’ ad anestetizzare. È possibile che la gratitudine, allora, si possa imparare proprio nell’incontro con l’estraneo?
Maria Luisa Petruccelli
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