Filosofia
Quando l’amore incontra la follia
Caro Cigno Nero,
quando si parla di disturbi del comportamento, comunemente, non si considera che, in misura variabile, fanno parte di ognuno di noi.
Sono sfumati, sovrapposti, intermittenti.
Non esiste la perfetta salute mentale, come può non essere esente dalla luce dell’intelligenza una mente bipolare o paranoica.
Tanti anni fa vidi una coppia lasciarsi perché uno dei due “impazzì”.
In altro caso uno dei due impazzì perché era appena stato lasciato.
Uno psicoterapeuta interpellato da chi ha una relazione amorosa o parentale con il depresso o il borderline che non riesce ad aiutare, gli dirà sempre di salvare se stesso. Di restare distaccato. È la regola prima. Il depresso è come uno che affoga e non puoi salvarlo se non dalla riva , tendendogli un ramo ..o ti trascinerebbe a fondo con sé.
L’amore fa qualche miracolo …oppure no? L’amore guarisce almeno un po’?
E la malattia psichiatrica richiede la minore empatia possibile per essere d’aiuto?
Karen S.
Cara Karen,
della follia, prima che prendesse un altro nome, si è occupata la filosofia, da Platone a Erasmo, a Nietzsche; fino a Foucault, che descrive i dispositivi di potere tesi a contenerla, ma anche paradossalmente a costruirla.
Nonostante oggi sia circoscritta all’ambito della clinica, nei dipartimenti dai nomi eloquenti di “salute” o “igiene” mentale, fai notare come nessuno sia estraneo alla follia, come anche il più equilibrato di noi conosca in misura variabile la depressione, la paranoia o la mania. Ed è verissimo nella misura in cui, fin dalla nascita, la nostra vita non è stata che un continuo percorso di costruzione del Sé, in un costante confronto con i limiti, tesi a insegnare come si sta dentro i confini del piano di realtà.
Ma al principio ‒ ed è questo il punto ‒ era la follia, all’origine della nostra storia individuale e di quella umana. “La follia è la matrice della sapienza”, ne è la madre, scriveva il filosofo Colli, in riferimento a un tempo arcaico che venne prima di ogni discorso razionale. Quella sapienza originaria scaturiva da una sfida con il dio, da un corpo a corpo con l’enigmaticità e l’oscurità dei suoi messaggi di verità. In pochi si addentravano in quel labirinto spaventoso, e solo gli eroi e i sapienti ne uscivano, perché coglierli era questione di vita o di morte. La filosofia, nata proprio da questo scenario, è venuta dopo, introducendo il razionale e la sua opera di confinamento, di limitazione e di ordine. Ma lo ha fatto allontanandosi sempre più dal sacro, rendendo quell’impresa esclusivamente umana, e quindi posticcia, lasciando indietro l’essenziale, i pezzi vivi, dell’incontro con la potenza dell’inaudito.
Possono sembrare, queste, considerazioni confuse e fuori fuoco rispetto al problema che poni, ma servono a introdurci, almeno un po’, dentro un discorso che razionale non è.
Al di là della reazione sbrigativa che ce li fa dire “malati”, qual è il nostro sentire più profondo di fronte al folle, che nel mezzo di una tempesta prende una barchetta e va a sfidare il mare aperto? Al depresso che sta giorni e notti in un letto, dando un taglio alle incombenze lavorative e relazionali? Al borderline che molla tutto per un viaggio senza dove né zaino, senza soldi né programmi? Non è che, in fondo, anche noi vorremmo provare l’ebbrezza perigliosa delle onde, correre il rischio di chiudere i battenti agli stress quotidiani, oppure ricominciare la nostra vita altrove e tutta da capo? Ma è il nostro Sé, il modello etico cui aderiamo, il lavoro che abbiamo fatto sui confini che ce lo impedisce. E il nostro può essere un atto di resistenza più o meno duro, perché i nostri argini possono essere più o meno forti. Allora, tutto sommato, sarebbe meglio che queste persone non ci destabilizzassero. Semplificando parecchio, forse potrebbe stare anche qui il senso dei nostri TSO o degli elettroshock del passato.
E l’amore?
Dell’amore la filosofia, che già nel nome si porta dentro un sentimento, si è sempre occupata. Platone lo riconosce come figlio di Poros, “espediente”, e di Penia, “povertà”, per cui l’amore, come legame a due che ci fa vivere con l’altro una reciprocità speciale, nascerebbe sempre da una mancanza, ed è il nostro desiderio di colmare l’incompletezza a spingerci a cercarlo.
E l’amore sarà universalmente considerato un bene, data la sua innegabile finalità etica. Per cui è naturale che ti domandi: “Può guarire almeno un po’?”
Questo interrogativo, però, ha anche un che di assurdo, perché è risaputo come proprio l’amore vada “a braccetto con la follia”: è sotto i nostri occhi, quando vediamo l’amica innamorarsi di qualcuno e non ne troviamo il senso, tanto più se il loro legame è fonte di sofferenza. A nulla valgono i nostri ragionamenti e tentativi di riportarla in sé, perché lei se ne è andata nella follia dell’amore. “Tu porti scompiglio alla mente di chiunque possiedi, anche l’animo giusto sai fare ingiusto e condurlo alla rovina” scriveva Sofocle in riferimento all’amore. Ma è ancora una volta la sapienza arcaica, figlia della follia, a dirci qualcosa di importante, perché nelle teogonie antiche Eros non aveva affatto a che vedere con l’unione di due unità, bensì con la manifestazione della molteplicità, con la sovrabbondanza che c’è nell’unità.
Perché negli innamorati, per Platone, “c’è qualcos’altro: evidentemente la loro anima cerca nell’altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza, come divinando da un fondo enigmatico e buio”. E questo qualcosa non solo vuole essere posseduto, ma posseduto per sempre.
Ecco perché se un amore finisce o non è ricambiato, potremmo impazzire.
Ma ti chiedi pure se l’amore possa salvare il folle dalla sua follia, se possiamo col nostro amore riportarlo al di qua, nel confine del principio di realtà in cui abitiamo anche noi, e costruirci lì dentro il nostro angolo privato di pazzia a due.
Lo psicanalista direbbe di abbandonare l’impresa. Forse però c’è una domanda che viene prima: vogliamo salvare l’altro per il suo bene, perché ‒ come dicevamo ‒ l’amore è etico, l’amore è buono? E se sì, quale sarebbe il bene dell’altro? Oppure vogliamo salvare il nostro amore, che senza reciprocità sarebbe perso? Il problema è quel “vogliamo”, perché il verbo “volere” poco si addice all’amore. Bisognerebbe reimparare a “desiderare”, il cui etimo rimanda a una mancanza ma anche alle stelle, a uno spazio aperto, all’eccedenza e la vertiginosità del cielo.
Nel nostro amore adulto, che sia parentale o di coppia, non sappiamo più desiderare, perché da grandi non sappiamo più stare sotto il cielo. Preferiamo i soffitti circoscritti e razionali delle case, così non abbiamo neppure lo spazio per riconoscere e concretizzare una mancanza, vogliamo solo che l’altro ritorni, e siamo disposti anche a trovargli la strada purché si sbrighi. E questo è tutt’altro che empatizzare; paradossalmente va più nella direzione di un pensiero magico di onnipotenza, lo stesso che in genere attribuiamo all’infantilismo dei bambini. Ma esiste una differenza, e un aneddoto può aiutarci a chiarirla: c’era una nonna un po’ stramba, che spesso e volentieri si assentava per andarsene con la sua follia, diventando come presente a ciò che non era presente. I suoi nipoti la amavano, aspettando senza disagio che ogni tanto lei tornasse, per ascoltare le storie bellissime che raccontava e che chissà dove aveva visto, perché non erano scritte da nessuna parte, eppure avevano un che di familiare. Per quei bambini era come stare su una riva, tra l’alta e la bassa marea, ad attendere il momento in cui il friccicore dell’onda arrivasse di nuovo a lambire i loro piedi. E anche all’onda piaceva schizzarli, avvolgerli e trovare il loro calore soffice.
Allora ha senso attribuire il pensiero magico di onnipotenza ai bambini, perché non sanno aspettare un biscotto quando hanno fame. Ma quando si tratta delle cose importanti, come un ritorno, i ruoli si invertono perché, a differenza dei grandi, i piccoli sanno attenderle. Forse perché sono capaci di desiderare e di stare sotto il cielo. Forse perché sono più vicini all’origine, alla follia, di cui hanno grande rispetto.
Empatizzare è più simile all’attesa dell’onda magica di chi sta sulla riva. In fondo, in amore non ci sono garanzie di guarigione o di miracoli, perché nulla si può sapere prima, nemmeno l’amore. Possiamo stare sotto il cielo, con o senza le stelle, con la pioggia o una brezza leggera, finché avremo la capacità di desiderare, cioè di amare. La verità dell’amore poi, nell’attesa, potrà forse accadere.
Invece di chiederci se l’amore possa guarire la follia, essendo lui stesso folle, potremmo metterci nella dimensione della cura, sentimentale e non strumentale, cioè nel senso dell’«avere cura di-». Quale sarebbe la posta in gioco?
Irene Merlini
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