Filosofia
Quando il sentire è solo roba mia – La Posta del Cigno Nero
Caro Cigno Nero,
Lettera interessante quella di Paola ( lettera di Paola ). Mi ritrovo, ma stranamente, nelle due facce: quella della depressa cronica e quella dell’intollerante. A ben pensare non è poi tanto strano. Fino ad un certo tempo della mia vita facevo parte della categoria degli intolleranti. Mi spiego: in famiglia – e non solo – ero quella “forte” a cui tutti si appoggiavano, con cui si confidavano, perché tanto io non avevo problemi.
Fragilità, gioie, sofferenze, erano ben celate in me, erano comunque “roba mia”, vita quotidiana che affrontavo senza inutili piagnistei. Resta il fatto però che tutto ciò che facevo per “loro” lo facevo volentieri, nella speranza di aiutare e nella presunzione che gli “altri” cambiassero e diventassero forti e sereni.
Ma il tempo passa, e ti accorgi che problemi di ordinaria quotidianità, di vita vissuta non so come, si fanno largo dentro l’anima e allora ti manca l’ossigeno! Ho bisogno di aria, e mi ritrovo nella più classica delle depressioni. O forse malinconia?
Pegaso
Cara Pegaso,
Fragilità, gioie, sofferenze fanno parte di quello spettro emotivo-sentimentale che è la condizione imprescindibile della nostra esistenza. Senza sentimenti, in altre parole, non saremmo noi stessi.
La loro sede, per Maria Zambrano, sono “las entrañas”, e non è un caso che questa definizione resti intraducibile dallo spagnolo, poichè fa riferimento alla profondità dell’essere, ai suoi luoghi più segreti, a qualcosa che resiste a rendersi visibile.
Non sorprende allora la nostra abitudine a considerare i sentimenti qualcosa di privato, né la conseguente difficoltà nell’esprimere o comunicare ciò che sentiamo, che si tratti degli altri o di noi stessi. Persino quando ci appelliamo al cosiddetto senso del pudore (che sembra spostarsi sempre più dal corpo ai sentimenti), spesso lo facciamo perché convinti che il sentire sia “roba nostra”, e così quel pudore diventa lo scudo che indossiamo per non sentirci nudi, esposti e quindi vulnerabili, mostrando quella parte più intima di noi.
Nulla è più difficile da definire dei sentimenti, per via delle loro infinite sfumature e dei mutevoli confini. Se ci pensiamo bene, la loro caratteristica è quella di manifestarsi più per assenza che per presenza: la fine di un amore o di un’ amicizia, un lutto, una malattia fanno emergere quel sentire che accompagna il vuoto di ciò che non è più.
Eppure, come ci dice Zambrano, tutto ciò che può essere conosciuto, pensato, calcolato o di cui si può fare esperienza è prima di tutto sentito, laddove senza qualcuno che sente verrebbe a mancare l’interesse per ciò che può essere percepito e quindi capito, conosciuto, vissuto. Ecco allora che è proprio dei sentimenti non l’essere analizzati, ma espressi. Ed è solo nell’espressione che i sentimenti smettono di essere “roba nostra” per diventare fili sottilissimi che tessono la trama della nostra storia, che si rivela poco a poco complessa, perché ogni filo intrecciandosi ai fili degli altri crea legami. Se non siamo però disposti a metterci in relazione con il diverso da noi, in una relazione che sia guidata dal sentire prima che dalla ragione, affacciandoci al mondo, per usare ancora le parole di Zambrano, continueremo a cercare negli “altri” uno specchio che ci restituisca la nostra immagine, diventando intolleranti, o, peggio ancora, tolleranti, non nel senso di comprensivi ma tali da tenere a distanza tutto ciò con cui non sappiamo rapportarci. Così la tristezza degli altri disturberà la felicità che consideriamo solo nostra, e la nostra tristezza vorrà sempre avere il diritto di precedenza sulla felicità degli altri. Il senso di solitudine nasce proprio dall’aver visto in quello specchio sempre la propria immagine, rifiutandone qualsiasi altra differente, anche di noi stessi.
Ma, come ci ricorda Pessoa, non esiste uno specchio che riesca a farci vedere la nostra immagine come la vedono gli altri, ed è questo il motivo per cui quegli “altri” sono importanti: nel raccontarci a qualcuno i nostri sentimenti prendono forma, permettendoci di conoscerci e di essere riconoscibili. Allo stesso tempo gli altri ci restituiscono una immagine di noi che da soli non possiamo vedere. Su questo tipo di narrazione si fondano i legami autentici, quelli che, a dispetto del loro nome, ci rendono liberi. Già Aristotele vedeva un nesso tra legami e libertà. Per lui l’uomo libero è proprio quello che ha molti legami e molti obblighi verso gli altri, a differenza dello schiavo che non avendo legami non ha un suo posto e perciò può essere utilizzato dappertutto e in diversi modi. Si è liberi quindi nella relazione, che è il telaio su cui costruire la nostra identità. Si è liberi sapendo chi siamo, e questo sapere, che è prima di tutto un sentire, è ciò che ci permette di mostrarci fragili senza essere sopraffatti dagli altri, ma trovando invece in loro il luogo della nostra forza. Perché, come direbbe Adorno, “dove sei amato puoi mostrarti debole senza aspettarti in risposta la forza”.
La tua lettera si chiude con un riferimento alla malinconia. Il suo corrispettivo bulgaro è la “tăgà” che però, proprio come “las entrañas”, offre una sfumatura che manca in altre lingue: non è il sentimento che si prova nei confronti di ciò che si è avuto e poi perso, ma riguarda ciò che si è perso senza la certezza di averlo mai avuto.
Potrebbe essere che, non solo il riconoscersi fragili, ma anche e soprattutto il rivelarsi fragili, possa darci la boccata d’ossigeno per superare questo tipo di apnea?
Maria Luisa Petruccelli
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