Filosofia

Perché fingere in amicizia? – La Posta del Cigno Nero

21 Agosto 2020

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Caro Cigno Nero,
Nella mia vita, ho sempre pensato che gli amici sono la nostra famiglia adottiva, quella che ci scegliamo. I rapporti di amicizia per me sono per sempre: l’amore può finire per diversi motivi, finisce l’attrazione, ci si innamora di altre persone… la fine di un amore riesco a concepirla, la fine di una amicizia no. Nel corso degli ultimi anni invece ho perso diversi rapporti per me sinceri e non riesco proprio a farmene una ragione. Qualcuno dice che non erano amicizie vere, che le persone ti usano, che ci sono i “vampiri emotivi”. Io mi chiedo, perché fingere in amicizia? Mi sento tradita e abbandonata e ogni tanto la mia mente torna a rimuginare su questi fallimenti.
Tu che ne pensi?
Ti saluto con affetto,

S.W.

 

Cara S. W.,
Se è vero che, in quanto animali sociali, è la nostra natura a portarci a creare legami, la faccenda si complica nel momento in cui ci
soffermiamo ad analizzare la qualità delle relazioni che costruiamo.
I “legami di sangue”, quelli che tengono insieme i membri di una famiglia, non contemplano l’amicizia, e non certo per assenza della componente affettiva, ma perché, ad esempio, sappiamo bene che, se i genitori fossero amici dei figli, non potrebbero fare i genitori.
D’altra parte, se due amici sentono di esserlo davvero, diranno del loro rapporto: “siamo come fratelli” o “siamo come sorelle”.
Se ci spostiamo nell’ambito amoroso, le cose restano abbastanza confuse: “ti vedo più come un amico/a” o “non possiamo essere amici perché ti amo” sono le frasi più gettonate dell’amore non corrisposto. Poi c’è l’amore confuso, in cui coniugi o fidanzati sono anche, o addirittura prima ancora, “i migliori amici”. E infine, l’amore equivocato (dagli altri) cui si replica con un sonoro: “Siamo solo amici”, dove quel “solo” sembra riservare all’amico un posto di seconda classe.
Eppure un’amicizia, quando finisce, lascia un vuoto che è proprio di questo tipo di legame. Non ha la drammaticità spettacolare della fine di un amore, né quella più discreta di una rottura parentale. Perdere un amico significa perdere l’unico rapporto totalmente libero che ci permette di intravedere nell’altro una parte preziosa della nostra storia, una storia che non è più solo la nostra.
Una cosa è certa, le amicizie non sono tutte uguali. Aristotele, ad esempio, distingue le amicizie primarie, quelle cioè che richiedono tempo e cura e che sono il frutto di una scelta impegnata, da quelle secondarie, ovvero basate sull’utilità o sul piacere.  Nell’ essere amici per utilità o per piacere non c’è nulla di male, a patto che entrambi gli amici siano consapevoli della natura del legame che li unisce, senza aspettarsi nulla di più, se non il fatto che, venendo a mancare il motivo alla base di questo tipo di frequentazione, l’amicizia finirà. L’amico di utilità o quello di piacere non potranno mai essere più di questo. E non è necessario essere delle brave persone per coltivare quella che Aristotele definisce una amicizia secondaria.
La maggior parte dei problemi sorge proprio quando confondiamo questi due tipi di amicizia, quando ci aspettiamo dall’amico di piacere che ci stia accanto nei momenti bui, o da quello di utilità che ci chiami semplicemente per sapere come stiamo o faccia un pezzo di strada in più con noi solo per il piacere di restare ancora un po’ insieme.
Se come dice Seneca “esistono molti uomini ai quali non è mancato l’amico ma l’amicizia”, forse prima di cercare nell’altro un amico, dovremmo cercare l’amicizia, spostando la nostra attenzione sulla relazione.
Ma l’impressione è quella che l’amicizia abbia in sé qualcosa di indicibile, qualcosa che sfugge al nostro bisogno di renderla oggettiva, logica. Un po’ come l’ironia, che se provi a spiegarla perde il suo senso. È un legame che diventa un mistero nel momento in cui proviamo a svelarlo. Un mistero che forse solo le parole di Montaigne, riferite al suo più caro amico Étienne de la Boétie, sono riuscite a rendere, e che sono l’unica risposta possibile di un’amicizia che tenta di spiegare sé stessa: “Perché era lui, perché ero io”.

Ripensando a quelle amicizie finite, avresti potuto dire con la stessa certezza di Montaigne, “Perché era lui, perché ero io”?

Maria Luisa Petruccelli

 

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Ph: Nico di Cesare
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