Costume

Per un’antiretorica della quarantena. 4 cose da fare subito per salvare la vita

4 Aprile 2020

Non sempre è utile avere dei condottieri. Non sempre è il tempo dei forti, degli ottimisti, di chi è di conforto per gli altri, di chi dà il buon esempio, di chi si sforza di onorare il tempo presente. Non è tollerabile questa retorica degli uomini e delle donne che continuano con smalto, come se nulla fosse, a svolgere le loro – talvolta inutili, peraltro – attività. E così vanno sui giornali a dirti di leggere, di cucinare, di essere grato al mondo per essere vivi. Come diceva Cioran, di coloro che non spargono attorno a sé un aroma di fallimento è difficile dire che abbiano vissuto: “La decomposizione è l’unica traccia che i passi lasciano in dote alla vita, questo strano putridume della materia”. E noi, oggi, abbiamo bisogno dei vivi. Abbiamo bisogno di essere liberi e, diceva ancora Cioran, “la libertà rappresenta a mio avviso la possibilità non solo di pensare diversamente rispetto agli altri, ma di vivere le proprie contraddizioni, con disinvoltura. Dove non c’è libertà, bisogna occultare le proprie intime contraddizioni e ciò non è un bene per l’equilibrio di una persona”. Oggi è il momento di chi sa che c’è un tempo per rispettare la morte e il dolore, che c’è un tempo per denunciare che stiamo vivendo dentro a una grossa, dannata fregatura.

Che qualcuno se ne faccia carico, ora o mai più. È giunto dunque il momento di dire che stiamo (quasi) tutti male. Pare di esser tornati a un passato in cui sembrava importante esclusivamente non spezzarsi entrambe le braccia, ma il cuore e lo spirito sì, quelli si possono frantumare, che importa. Stiamo procedendo ciecamente dentro a una quarantena la cui data di scadenza si sposta ogni giorno più in là, come se non esistessero milioni di persone completamente sole da settimane, completamente rinchiuse: pure in carcere si mangia insieme a qualcuno, o almeno lo si fa in tempi normali. L’ammissione della dipendenza dagli altri è l’inizio delle nostre debolezze, ma anche il principio di ogni nostra rivolta. “Il diritto alla contraddizione è il più importante diritto intimo che l’uomo deve conquistare, non in forza delle leggi ma in base alle consuetudini”, scriveva Miguel de Unamuno nel 1900, in La ideocracia. “Protesto, semplicemente, perché sono vivo. E perché la più abietta delle tirannie è l’ideocrazia”. Stiamo giustamente salvando molte vite umane, ma non ci stiamo occupando minimamente della catastrofe emotiva che ci porteremo dietro per chissà quanti altri decenni. E senza energie emotive non si ricostruisce, nemmeno si manutiene, a dire il vero. Che qualcuno se ne faccia carico, ora o mai più.

Essere stati molto vicini a qualcuno, e ora non più. Anche il trauma delle perdite, anche quello lo stiamo nascondendo sotto al cuscino. Scriveva Mircea Eliade: “Scoprire […] che l’uomo è e resta sempre nella storia è più grave e drammatico di quel che parrebbe d’acchito. La risposta a questa scoperta è la disperazione. E si verifica in ogni circostanza; ad esempio, la consapevolezza di avere passato dieci anni accanto a Nina è una fonte di disperazione. È una storia da cui non posso separarmi, che non posso cancellare e che continua a farmi, a influenzarmi. Comunque tenti, non posso più tornare al tempo in cui non avevamo iniziato la vita insieme”. Storie di vicinanza spezzate, solitudini non preparate per tempo, inaspettate, brutali, che hanno investito molti nel mondo con la violenza delle morti inattese, ma senza la possibilità di celebrare alcun funerale, un momento formale di saluto e distacco. Così, ripercorriamo l’incidente notte dopo notte, sogno dopo sogno, e se siamo bravi e fortunati andiamo dallo psicologo, ma il poliziotto che ci compila l’autocertificazione si chiede se davvero possa accettarla come una visita medica. Così sogniamo. Ci svegliamo piangendo. “Veda – scriveva ancora Cioran – c’è un gruppo di insonni, con una sorta di solidarietà reciproca, come fra persone che hanno la stessa malattia. Ci capiamo subito, perché conosciamo quel dramma. Il dramma dell’insonnia è che il tempo non passa. Sei sdraiato nel mezzo della notte e non fai più parte del tempo. Ma non sei neppure nell’eternità. Il tempo passa così lentamente che diventa un’agonia. Tutti noi, in vita, siamo trascinati dal tempo, perché siamo nel tempo. Quando sei sdraiato, sveglio, in quel modo, sei fuori dal tempo. Così il tempo trascorre al di fuori di te e non riesci a tenerne il passo”.

Il nostro scetticismo non nasce dalla condizione attuale, storica. Questa gioca un ruolo, è ancora Cioran che parla, ma non centrale. Siamo immersi in uno scetticismo che deriva dalla nostra personale esperienza di vita, dalla nostra quotidiana lotta con la vita: “E da un’enorme, direi antica delusione, da una delusione innata. Naturalmente, la situazione storica ha giocato un ruolo, ha reso più intenso questo modo di sentire la vita, ma non l’ha prodotto”. Non l’ha prodotto. Siamo la generazione cresciuta nel mondo farsesco della post-ideologia. Nel mondo crudele del ritorno al privato, del ritorno all’atomizzazione sociale, alla diffidenza verso il prossimo, al si salvi chi può, ma da solo. L’implosione dell’Urss, non in quanto tale ma come “possibilità” di altro, l’implosione dell’Italia “uscita dalla resistenza” hanno rappresentato una sorta di controrivoluzione culturale. Si sono dissolti una serie di parametri interpretativi antagonisti di un generico punto di vista dominante, che oggi fagocita le nostre vite e si nutre di un costume e di un clima ideologico conformisti. Eppure la risposta non solo non c’era allora e non c’è neanche oggi, ma era allora – ed è ancora oggi – addirittura impossibile. Ciò che sembra aver senso, semmai, è un paziente e intenso lavoro culturale di accrescimento degli strumenti critici e di lettura dell’esistente. Strumenti culturali nel senso più ampio, ma anche emotivi. Strumenti che non possono e non devono guardare solo indietro e ai vecchi riferimenti, ma avanti e alla società per come potrà e saprà dipanarsi. Una società più complessa che avrà i suoi strumenti di lettura adeguati. Noi, oggi, non li possiamo ancora vedere. Il campo critico del capitalismo non sarà probabilmente rivoluzionario, ma avrà comunque un forte impatto culturale e di idee. Ma, comunque, per tornare al punto da cui siamo partiti, tutto questo non avverrà, se non interveniamo subito, ora, per porre un freno alla lacerazione del nostro spirito vivo, alla tutela della nostra energia più vitale. Perché altrimenti ne saremo usciti piegati, questa volta per sempre. Ne saremo usciti sudditi di un re capriccioso e di antico regime. Solo se ci solleviamo già oggi, potremo assolvere domani al nostro compito, la difesa di quella cultura – libera e strutturalmente anticonformista, e in questo senso militante – che un giorno ci consentirà di riprovare a partire.

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