Filosofia

Francesco&PPP

30 Agosto 2022

Vivere la contraddizione(?), vivere per libere associazioni e asimmetrie: papa Francesco e Pier Paolo Pasolini, chi traduce chi? Chi sta aiutando l’altro ad urbanizzare il suo pensiero? Due figure lontanissime nel tempo e nello spazio, ma così simili nel loro consumarsi per la vita.
Nell’incontro con la Diocesi di Lodi – lo scorso 26 agosto, presso la Sala Clementina in Vaticano – in un passaggio del suo intervento, papa Francesco ha espresso un pensiero fondamentale riguardo la trasmissione della fede:

“Penso ai nonni e alle nonne che trasmettono la fede con l’esempio e con la saggezza dei loro consigli. Perché la fede va trasmessa in dialetto, sempre, in nessun altra maniera. I nonni, papà, mamma…La fede va trasmessa in dialetto. Sappiamo bene che oggi il mondo è cambiato, anzi, è in continua trasformazione. C’è bisogno di cercare nuove strade, nuovi metodi, nuovi linguaggi. La via maestra, tuttavia, rimane la stessa: quella della testimonianza, di una vita plasmata dal Vangelo”

Nonostante le rapide trasformazioni del mondo in cui viviamo, che fatichiamo ad inseguire, l’invito [cfr. Lc, 1.7 – 14] di Francesco non è l’invito di un ritorno al passato, ad una lentezza che fu. Il dialetto è parresia, ed è figlio di un altro genere di velocità: la velocità dell’intuito corporeo, della carne che precede il logos.

Qui ci aiuta Pier Paolo Pasolini che, come poeta, più d’ogni altro ha sperimentato le infinite possibilità della langue. Per PPP la lingua dialettale è strettamente legata al corpo del popolo. Per lui prima c’è stato il friulano delle sue poesie giovanili, poi il romano dei suoi romanzi più maturi – come Ragazzi di vita e soprattutto Una vita violenta -: per Pasolini il dialetto resta un linguaggio del corpo, precedente al linguaggio standard formato dalla televisione e scuola. E il dialetto rifletteva anche la sua visione del mondo, profondamente religiosa. Il dialetto è parresia perché è un linguaggio ancora legato al mistero delle cose, alla santità mitologica della natura. Il dialetto è la lingua della Madre.

Allo stesso modo Francesco e PPP convergono(?) su un’altra cosa: l’istituzione. La parola ricorre in molti interventi di Francesco, fra cui il più famoso, secondo cui il cristiano sarebbe chiamato a “avviare[istituire] processi e non occupare spazi”. Ma sappiamo bene tutti noi il problema relazionale che abbiamo con le istituzioni. Le viviamo come altro da noi, distanti dai nostri problemi, eppure…

Sempre Francesco, sempre lo scorso 26 agosto, a proposito del processo sinodale ha detto:

“Il cammino sinodale è lo sviluppo di una dimensione della Chiesa. Una volta ho sentito dire: “Noi vogliamo una Chiesa più sinodale e meno istituzionale”: questo non va. Il cammino sinodale è istituzionale, perché appartiene all’essenza propria della Chiesa. Siamo in sinodo perché istituzione.”

Qui Francesco ci invita a considerare istituzione qualcosa di intrinseco, di strutturale all’essenza della Chiesa. Istituzione e dialetto, due modalità di essere Chiesa in controcorrente rispetto a dove è diretto il mondo, con i suoi standard, con la sua necessità di omologazione e di segmentazione dei messaggi pubblicitari.

La Chiesa, istituzione e dialetto, è invece il luogo non dell’omologazione, ma dell’omologhia (Platone), è il luogo dei messaggi universali, e proprio in quanto universali parlano ad ognuno di noi, sono pensati per noi, al singolare.

Questo essere della Chiesa io lo trovo commovente.

Anime belle del cazzo, per cos’altro moriranno
i due fratelli Kennedy, se non
per un’istituzione? E per cos’altro, se non per
un’istituzione,
moriranno tanti piccoli, sublimi Vietcong?
Poiché le istituzioni sono commoventi: e gli uomini
in altro che in esse non sanno riconoscersi.
Sono esse che li rendono umilmente fratelli.
C’è qualcosa di così misterioso nelle istituzioni
– unica forma di vita e semplice modello per l’umanità che
il mistero di un singolo, in confronto, è nulla.

Trasumanar e organizzar, “L’enigma di Pio XII”

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