Filosofia

Palmyra e le rovine della storia

15 Maggio 2015

“Siria, l’Isis minaccia Palmyra e le sue rovine patrimonio dell’umanità”. Così titolava il “Corriere” ieri. Angoscia, antiche letture e meditazioni riaffiorano.

Vi sarà capitato visitando una necropoli, non so Cerveteri, oppure una di quelle città mediorientali di grande impatto visivo come Palmyra (nella foto) o Petra, sentire su di voi quel “frisson de l’histoire” di cui parla Flaubert nell’Educazione sentimentale, ma soprattutto in quell’altro suo libro Per i campi e lungo i greti, che altro non è che la sua memoria di viaggio nello spazio, i castelli della Loira, ma soprattutto nel tempo, la grande storia dei reali di Francia.

Il senso di ogni viaggio che non abbia per meta le Maldive o qualsiasi altro luogo in cui il bello naturale sopravanza quello storico-artistico, è proprio questo:  un viaggio nel tempo più che nello spazio, uno scivolare, come Alice, lungo il pendio della storia. Il brivido della storia che si avverte in questi luoghi reca spesso con sé un velo di tristezza per i secoli andati, per gli evi perenti, per le civiltà perdute, per le grandezze cadute. Questo sentimento nacque – perché tutti i sentimenti che generano una sensibilità diffusa hanno un’origine storica – nella coscienza collettiva occidentale grazie alle prime forme di turismo colto, nel Settecento. E trovò anche un termine di riferimento: il rovinismo. In quel secolo si iniziarono gli scavi di Pompei che fecero epoca nella sensibilità artistica e che richiamarono dall’Europa fredda  una selezionata schiera di giovani ricchi e colti;  ma alcuni di questi speciali “visitatori del tempo”  andarono oltre i confini del Grand Tour italiano e si spinsero fino in Medio Oriente.

È il caso di Volney (Constantin-François Chassebœuf, conte di) autore di Les ruines, ou méditations sur les révolutions des Empires (1791). A Volney, un giovane illuminista radicale e massone, protégé di d’Holbach, si deve l’introduzione del termine e concetto di rovinismo nella sensibilità del tempo, una forma di sensibilità che coniugandosi anche con una certa poesia sepolcrale fu in qualche modo, in quell’epoca di svolta della storia mondiale, come  l’ultimo sguardo gettato all’indietro, verso il passato,  dell’uomo bianco europeo , non senza  qualche singhiozzo, prima di lanciarsi nella grande e folle corsa verso il futuro della rivoluzione industriale che diede luogo al mondo che oggi conosciamo.

Nell’introduzione alle Lezioni sulla filosofia della storia, anche Hegel si abbandona alla nostalgia dei regni perduti di Palmyra, Cartagine, Persepoli, Roma, ecc e del dolore che queste cadute comportano. Hegel non ha mai viaggiato fuori dall’Europa centrale e dunque da dove trae le sue informazioni su quelle allusioni storiche? Jacques D’Hondt, storico francese della filosofia, eccellente autore di Hegel segreto . Ricerche sulle fonti nascoste del pensiero hegeliano – Guerini e Associati, Milano 1989,    identifica proprio nel nostro Volney la sua fonte occulta.

Hegel conobbe sicuramente il testo di Volney nel 1791 attraverso “Minerva”, una rivista radicale edita da alcuni   Illuminati tedeschi, che pubblicò in traduzione alcuni brani delle Ruines. Scrive d’Hondt che Hegel lesse  certamente il libro per intero in un periodo che ci è impossibile determinare con precisione;  lo cita in altri scritti e in argomentazioni marginali (segno che ne aveva conoscenza diretta), ma non nelle Lezioni. Perché? Lo Hegel di fine carriera, pensatore “ufficiale”, conservatore, monarchico, prussiano non doveva mostrare alcuna idea “foderata di rosso” com’erano le sue idee teologiche di gioventù. Per motivi prudenziali, essendo Volney uno scrittore radicale e ateo, Hegel si sarebbe più che compromesso a citare un viaggiatore massone e membro della Convenzione (nonché protetto di d’Holbach). Quindi meglio il larvatus prodeo, tipico di chi ha  pensato per tutta una vita sotto traccia lavorando alla propria statua di pensatore ufficiale del Reich.

Ma è interessante per noi qui evidenziare che il tema delle rovine diventa nelle mani di Hegel un tema grandioso – come può accadere solo nelle grandi intelligenze speculative – di filosofia della storia. Bisogna piangere e disperarsi sulle epoche cadute? O piuttosto, inserendole nel progredire della storia, esse sono il negativo che viene superato in una più grande sintesi della storia medesima? Non è forse necessario che il seme muoia perché nasca la pianta? Insomma è il tema della “giustificazione” razionale del divenire, del reale che è sempre razionale. In questa prospettiva le Rovine sono da considerare nient’altro che delle sublimità vuote e sterili.

La filosofia di Hegel è un tentativo grandioso di conciliare l’uomo con la sua storia. Ecco come spiega  D’Hondt questo tentativo: “Bisogna accettare, accogliere questo negativo, mostrarne la necessità, farne emergere l’utilità, indicare la positività implicita del male e della morte. Non c’è costruzione senza distruzione, la resurrezione implica preliminarmente la morte, il progresso deve distruggere ciò che è sorpassato. La Fenice risorge eternamente dalle sue ceneri, ma lo spirito compie un superamento di sé in ciascuno dei suoi mutamenti, s’innalza e si fa libero”. E più avanti: “Ma il sentimento di Hegel non giungerà mai – non c’è dubbio – a giustificare del tutto le sue costruzioni teoriche. Non si può danzare su tutte le rovine come su quelle della Bastiglia”.

Sempre nelle Lezioni sulla filosofia della storia cogliamo la  simpatia di Hegel per la Fenicia e i fenici come popolo del mare. “Dimentica l’idolatria che vi regnava, per pensare soltanto al culto di Ercole e di Adone che vi si sviluppò. Anche su questo punto i fenici superano gli ebrei e , forse persino i cristiani: inventano infatti un Dio che muore, ed Hegel descrive a lungo questa invenzione” p.146. “Ma la storia si nutre di questi crolli, e la storia è ciò che v’è di più alto. Ecco la definitiva, anche se discreta, risposta hegeliana a Volney. Senza insistervi troppo, Hegel affermerà la superiorità del caduco sul duraturo; tesi assai audace, che, applicata al cristianesimo, farebbe di Hegel, con il suo storicismo, un autore molto meno religioso di Volney con il suo razionalismo «illuminato»!” p. 149

“Ne sappiamo abbastanza su Volney per comprendere che la prudenza consigliava a Hegel di non citarne il nome, né durante il periodo rivoluzionario, Né all’epoca della Restaurazione. Si doveva evitare di lasciare trapelare qualsiasi debito nei suoi  riguardi. Ma possiamo supporre un’ulteriore ragione del silenzio di Hegel: forse nemmeno lui era del tutto convinto di aver completamente confutato le argomentazioni di Volney, il quale aveva saputo sostenere , con tutta la sua eloquenza, l’accusa delle rovine, solitamente condannate al silenzio”. p.153

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E adesso queste rovine che hanno ispirato così alti pensieri sono nelle mani di fanatici che hanno già distrutto l’antica Ninive. L’angelo della storia si copre il viso voltato all’indietro.

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