Filosofia

“Open source è ricorsivo, come i frattali” – Salvatore Zingale (Semiologo)

23 Settembre 2015

Oggi l’intervistato è un personaggio eccezionale, un uomo straordinario per la sua umanità e la capacità di analisi del mondo, uno studioso del mondo dei segni e del senso, docente di Semiotica del Progetto presso il Politecnico di Milano, Salvatore Zingale.
 

→ Come è stata la tua esperienza con la scuola? (come studente o come insegnante)

 
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Rispondere fino in fondo a questa domanda comporta un rischio: che al lettore venga il capogiro. Nei cinque anni di scuola elementare ho cambiato quattro sedi, le prime tre in Sicilia, ma in tre paesi diversi; la quarta in Germania. I tre anni delle medie sono l’eccezione: tutti nello stesso luogo. Poi si ricomincia: cinque anni di liceo classico in quattro scuole diverse, in quattro istituti diversi, Lombardia, Veneto e Piemonte. Per non perdere l’abitudine, all’università mi sono immatricolato a Milano ma laureato a Bologna.

Non cambiano le cose nella mia esperienza di docente, iniziata per caso. Quand’ero a Francoforte ho trovato da guadagnare i soldi per sopravvivere prima in pizzeria, poi insegnando nei corsi delle 150 Ore (che ai tempi permettevano ai lavoratori di ottenere il diploma di licenza media), nelle fabbriche, fra cui l’Opel, e nelle carceri. Anni dopo sono finito all’università, passando dalle supplenze alle medie e da dodici bellissimi anni all’Istituto Statale d’Arte di Monza – su cui ritornerò più avanti.

Ecco, ogni tanto mi chiedo se queste migrazioni m’abbiano giovato o danneggiato. Non so darmi una risposta. Certamente non ho potuto godere di una formazione lineare, ordinata e solida; e questo è un handicap che ogni tanto sento affacciarsi. Ma forse questa erranza fra diversi istituti e luoghi mi ha fatto capire il valore dei diversi modi di insegnare e di concepire una scuola. E di capire perché usiamo la parola insegnare, che vuol dire lasciare segni. Non tanto i segni stampati nei libri o tracciati alla lavagna, quanto quelli che trovi nella persona del docente. L’insegnamento è dialogico. Se non è dialogico, questi segni non vengono lasciati; forse mostrati, offerti, instillati, ma senza alcuna garanzia di risposta.
 
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Sarà anche per questo che al modello della lezione preferisco quello del seminario, o del laboratorio. Anche qui c’è un bel suggerimento che ci viene dall’etimologia: il seminario è il luogo dove si ripongono i semi, e quindi un luogo che prepara la fertilità.

Dicevo dell’Isa di Monza, una scuola situata dentro un’ala (piuttosto sgarrupata) della Villa Reale del Piermarini, a ridosso del parco. Ecco, quello era davvero un luogo di semina. Una scuola concepita sull’idea di sperimentazione e di ricerca, dove noi docenti eravamo capaci di aspre discussioni, a volta anche di litigi, sui programmi o sugli stili di insegnamento. Non a caso è stata una scuola che ha anticipato di un paio di decenni tutte le facoltà di design in Italia, dove hanno insegnato progettisti e studiosi che avevano o hanno avuto un ruolo intellettuale conosciuto anche in altri ambiti: AG Fronzoni, Ugo La Pietra, Narciso Silvestrini, Anty Pansera, Vincenzo Vitta, e diversi altri. Non a caso in quella scuola le discipline artistiche e progettuali dialogavano strettamente con quelle scientifiche e tecnologiche: nei laboratori di modellistica entravano anche i docenti di matematica o di geometria descrittiva; per insegnare il colore si facevano leggere Goethe e Itten; nei laboratori di fotografia gli studenti avevano in tasca il libro di Walter Benjamin. Io ho iniziato lì a pensare la semiotica come strumento sia per capire l’arte sia per riflettere sul metodo progettuale. Potevamo sperimentare, e questo non solo ci permetteva una bella libertà di insegnamento, ma ci costringeva a riflettere continuamente su quello che facevamo.
 
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Ecco, quello è stato davvero un luogo e un tempo di semina, anche per noi docenti, tanto che quasi tutti gli studenti, anche a distanza di anni, anche se hanno finito per occuparsi di campi lontani dal design, di quella scuola hanno grande nostalgia. E ripetono tutti lo stesso motivo: ciò che abbiamo imparato all’Isa ci è stato poi utile all’università e oltre. Perché in fondo in fondo la sperimentazione faceva sì che si insegnasse sempre, e in ogni ambito; insegnava a dare valore al progettare. Lo dice ancora oggi, ad esempio, Sergio Menichelli, allievo dell’Isa di Monza e fondatore dello Studio FM a Milano.
 

→ Raccontaci la scuola dei tuoi sogni.

 
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La scuola dei miei sogni la sintetizzo allora in tre parole: sperimentazione, ricerca, dialogicità. Non c’è altro modo, dentro e fuori una qualsiasi scuola, per far crescere la conoscenza. Erroneamente si pensa che la sperimentazione sia propria solo nelle scienze della natura. Non è così.

Anche nelle scienze umane e del progetto la conoscenza va conquistata passando per l’esperienza del laboratorio. Ipotizziamo pure tutti i mondi e le cose che vogliamo, ma solo le ipotesi che sopravvivono alla prova della sperimentazione hanno possibilità di vita.
 
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Ma per sperimentare occorre porsi in una costante disposizione alla ricerca. Ciò che abbiamo, ciò che sappiamo, è condannato all’incompletezza, sempre: o non basta a dare risposta ai problemi, o va costantemente alimentato con nuove visioni, o va messo in discussione.
 

Se il pensiero è libero, la ricerca non può essere mai arrestata: è come l’acqua dei fiumi, la puoi dirigere o arginare, ma non arrestare. E se la raccogli nel modo dovuto, si trasforma in energia.

 
Dopo questa metafora fluviale per proseguire sono costretto a inventarne un’altra. Per dire che la dialogicità è la rete (di strade, fiumi o canali) sottesa alla semiosi. Semiosi è un termine tecnico, sta a indicare la nostra capacità di interpretare e quindi di produrre senso. La semiosi è, quindi, la base cognitiva della conoscenza in generale e della significazione in particolare. Ecco, questa semiosi io la immagino proprio come una rete, un reticolo di connessioni e di rimandi o richiami, di scambi. Nella rete nessun nodo o percorso ha senso da solo: il senso nasce invece dalla relazione, appunto dalla dialogicità.
 
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Una parola in un romanzo, diceva Michail Bachtin, non solo parla di qualcosa, ma parla sempre allo stesso tempo di qualcuno, con qualcuno e per qualcuno, parla cioè anche attraverso le parole altrui. La stessa cosa possiamo dire degli artefatti: ogni artefatto porta in sé la traccia di altri artefatti che lo hanno preceduto e, perché no, degli artefatti che verranno.
 
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A maggior ragione questo vale per la formazione e la didattica: il docente che insegna bene è quello che insegnando impara dai suoi studenti. E gli studenti imparano meglio dal momento in cui sono in grado di porre domande al docente.

 
Da qui il modello ineliminabile della dialogicità, specie in un tempo in cui la scuola è, ancora, dominata dal paradigma della monologicità: della trasmissione del sapere da una mente esperta a una mente da riempire.
 

→ Che cosa significa per te “fare ricerca”?

 
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Non so se risponderò alla domanda. Mi limito infatti solo a osservare che prima ancora di capire che cosa sia la ricerca e come bisogna fare ricerca occorre capire quale dev’essere l’oggetto della ricerca. Io non mi ritengo ricercatore dal momento in cui ho il compito di fare ricerca; e nemmeno dal momento in cui elaboro metodi per fare ricerca.
 
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Io sono ricercatore dal momento in cui ho qualcosa da cercare. Qualcosa che è necessario cercare.

 
Questo “qualcosa”, l’oggetto di ogni ricerca, ha un nome: problema. Secondo l’etimologia greca, un problema è ciò che è posto davanti a me. In genere è un ostacolo che ostruisce il cammino. Ma può essere anche qualcosa che non c’è e che invece dovrebbe esserci. Fare ricerca significa saper capire sia che cosa dobbiamo rimuovere, sia che cosa vogliamo che ci sia.
 
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→ Come immagini una “scuola open source”?

 
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Ovviamente come una sorgente aperta da cui è sempre permesso attingere. Ma anche come una scuola che possa essere costantemente riprogettata. Oppure ancora come una scuola da cui di fatto non si esce mai:
 

perché anche quando il corso, il workshop o qualsiasi altra forma didattica, si conclude, l’effetto della didattica in un modo o nell’altro non cessa ma continua, proprio perché si è riusciti ad avviare un processo di apprendimento inesauribile. Come un motorino perpetuo.

 
È vero che questo è, dovrebbe essere, un processo proprio di ogni tipo di didattica. Ma penso che una “scuola open source” dovrebbe non solo metterlo compiutamente in atto, ma soprattutto renderlo un modello da imitare o capace di autodiffondersi, come un contagio virtuoso. Del resto, se guardiamo la storia, le buone idee hanno questo di bello: che viaggiano da sole. Bastano pochi ed elementari mezzi. Un caso per tutti è l’Illuminismo, da cui discendono a parer mio le cose migliori degli ultimi due secoli. Illuminismo che può essere sintetizzato nel motto di Immanuel Kant:
 

“Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”.

 
A questo motto la visione open source può solo aggiungere:
 

“E metti la tua intelligenza a disposizione di tutti”.

 
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La metafora della sorgente aperta mi fa però venire in mente un’altra osservazione: se qualcosa è “aperto”, come un campo non recintato, allora non può che essere di tutti, di chi decide di transitarvi e di farci qualcosa. Viene così a mancare non solo il principio della proprietà, ma anche quello dell’autorialità, con tutto quel che ne consegue.
 

Così, non importa chi ha inventato o prodotto qualcosa, importa che quel qualcosa esista e che sia un bene per chi ne fa uso.

 
So che criticare l’autorialità, o volerla limitare, è un argomento che può suscitare reazioni e contro-argomentazioni. Ma comunque la si pensi, il pensare e l’agire “open source” a mio avviso ha il grande merito di spostare l’attenzione sul valore del prodotto e non sul prestigio del produttore.
 

→ Cosa cambierebbe se esistesse una “scuola open source”?

 
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Non lo so. Bisogna solo sperimentarlo. Ciò che credo di sapere è che se vogliamo cambiare la società, se vogliamo cambiare il mondo e renderlo un luogo abitabile, la scuola è il primo luogo da cui iniziare. I governi miopi non lo vedono, perché vedono l’istruzione come una spesa. Invece è un investimento. Nessun contadino penserebbe mai all’acqua che irriga i campi come a una voce di spesa su cui risparmiare.
 
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Se poi alla scuola si danno i caratteri che qui stiamo discutendo, meglio. Anche perché, nella mia piccola utopia, ripeto, una scuola non può che essere questo: sperimentazione, ricerca, dialogicità.
In sintesi, la scuola open source è una scuola che dovrebbe rendere “open source” ogni ambito cui si applica.
 

L’open source, infatti, io lo vedo secondo il modello della geometria frattale: un organismo che si ripete nella sua forma allo stesso modo in situazioni diverse.

 

Potendo ripensare il modo in cui si trasmette la conoscenza nella scuola, come lo ripenseresti?

 
Qui darò una risposta ancor più sintetica. Per dire che fra scuola e mondo del lavoro non bisognerebbe parlare di “ingresso”, ma di continuità. Un ingresso implica infatti una soglia da superare, e quindi un procedere in due distinti tempi e modi.
 

Il modello per cui prima studio, poi lavoro è da spazzare via. Si studia e lavora sempre, qualsiasi cosa si faccia.

 
Questo vale per chi programma computer, per chi prepara il cibo, per chi si occupa di filosofia. Insomma, facciamo sì che i due mondi diventino un mondo unico, in ogni campo.
 

→ In che modo credi che le tecnologie possano aiutarci a costruire un mondo migliore?

 
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Prima ho tirato in ballo l’Illuminismo. Ora porto una citazione dotta e tiro in ballo la Dialettica dell’illuminismo. Parlo dell’opera di Max Horkheimer e Theodor Adorno, i due filosofi e sociologi della Scuola di Francoforte. La cito solo per il suo argomento dominante, che possiamo applicare anche alla tecnologia. Questo libro esce nel 1947, dopo la catastrofe del nazismo e della seconda guerra. Horkheimer e Adorno colgono una contraddizione su cui riflettere: il progresso, anche quello grandioso dell’Illuminismo, può anche produrre regressione. La razionalità e la scienza sono in grado di produrre anche il proprio opposto: la scienza può finire con il dominare e annullare proprio quella libertà dell’uomo che si proponeva di liberare.

Non voglio essere apocalittico, ma ricordiamoci che qualsiasi cosa facciamo, il fine siamo pur sempre noi stessi. Superiamo la divisione fra scienze della natura e scienze umane. Tutte le scienze sono umane. Ogni scienza è attività umana per l’umano. Ogni tecnologia è strumento umano per l’umano. Anzi no, che dico: non solo per l’umano, ma per ogni forma vivente, animale e vegetale.

Questo vuol dire che proprio quando operiamo con la tecnologia, quando ricerchiamo i modi per orientarla per servire le nostre necessità – o anche i nostri sogni – occorre mettere in atto, allo stesso tempo, una dialettica della tecnologia, ossia un pensiero critico e un’attenzione alle conseguenze pratiche cui lo sviluppo della tecnologia ci porta. E dico questo proprio pensando a una “visione hacker”, dove l’ordine delle cose viene costantemente rimesso in discussione, dove attraverso l’esercizio indagatore e la sperimentazione, si cerca di modificare i sistemi esistenti in modo tale che questi siano disponibili per nuove funzioni e, direi, visioni.
 
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Ma forse questa riflessione è troppo generale. Allora ne formulo un’altra che spero possa contribuire al nostro sogno di scuola open source:
 

la tecnologia ha senso se e solo se è concepita come estensione e non come sostituzione delle nostre facoltà.

 
L’estensione è il fine; la sostituzione è il pericolo. Concepire la tecnologia come estensione dell’umano vuol dire del resto concepire l’invenzione tecnica come parte del processo evolutivo.

In questo senso il modello dei modelli è la proboscide degli elefanti, come suggerisce Steven Pinker nei suoi studi sul rapporto fra linguaggio e mente: con i suoi sessanta mila muscoli, questo “organo straordinario” consente all’elefante una molteplicità di operazioni: prendere una tazzina da caffè per il suo piccolo manico, stappare bottiglie e disegnare, ma anche sradicare un tronco d’albero, fare da boccaglio per chilometri sott’acqua, comunicare con barriti, percepire la presenza di un pitone nascosto nell’erba a più di un chilometro di distanza. La proboscide è l’archetipo dello strumento multiuso: sia cognitivamente che strumentalmente. Percepisce e agisce e comunica. Noi abbiamo il linguaggio e la tecnologia, agli elefanti basta la proboscide. Che per fortuna non è mai servita a nessuno di loro per impiccarsi a un albero, come invece abbiamo fatto noi.

Ecco, cerchiamo di pensare alla tecnologia copiando dagli elefanti.
 
 

Salvatore Zingale

 
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