Filosofia
Domande sulla paura, sulla guerra e sulla libertà
Parlavo nel post precedente dell’euristica della paura, (Hans Jonas, Principio responsabilità) riferendomi all’emozione che deve sempre accompagnare ogni nostra decisione, e quindi all’agire morale, a quell’azione che anticipando immaginativamente la possibilità della distruzione del mondo, si adopera per evitarla. Però dimenticavo di dire che la paura deve essere consapevole, acquisita, riflessa e tematizzata come tale. L’ errore si compie quando fingendo di parlare in maniera puramente razionale – supposto che sia facile o possibile parlare in maniera razionale se non esibendosi in una postura teatrale, recitando quindi – si dimentica di ciò che proviamo, non ne si prende consapevolezza, quasi che potessimo parlare da un non luogo in maniera astratta, giudicando la fattualità di ciò che stiamo vivendo come non ci riguardasse. Dico ciò perché mi è capitato di pensare, leggendo molti articoli, anzi nemmeno articoli, ma commenti, battute, twitt o messaggi o che so io (altro ancora che si possa reperire nel nostro spazio pubblico-sociale-social), frasi che si comprendono soltanto se si postula che chi le dice sia in preda una profonda ansia, se non addirittura ad un’angoscia psicopatologica. Chiaramente tutti siamo spaventati, e mi sto riferendo ovviamente a quello che ci sta capitando vivere in questo momento, a cui assistiamo, e che nemmeno nei nostri incubi peggiori avremmo potuto rappresentarci, la paura cioè di un’escalation che partendo da una sia pure importante crisi regionale ci conduca all’annichilimento della specie umana o quantomeno della specie umana europea o di una novantina di milioni – secondo le stime – di esseri umani europei in un tempo di poche ore. Ma il problema è che basterebbe riconoscerlo, rendersene conto cioè, basterebbe che noi vediamo e riconosciamo la paura e ci sforziamo di ragionare di conseguenza, senza assumere una postura di sorvolo dall’altezza neutrale di uno spirito assoluto hegeliano… Perché chiaramente noi abbiamo paura e la paura è certamente un movente importante del nostro agire morale, però dobbiamo tematizzarla, dobbiamo farla entrare riflessivamente nel nostro discorso, dobbiamo dire io XY, io nome e cognome, io Alessandro… ho paura, e o paura per me ma anche per mio figlio, per mia madre e mio padre, per i miei compagni, i miei alunni, per i miei vivi e per i miei morti, i miei prossimi e i miei lontani, i passati e i venturi, e forse, in uno slancio di filantropia, per il genere umano tutto. Invece leggo spesso giudizi emessi come da un non luogo, come chi dicessi: «io, io, io lo so, so tutto io, so di chi è la colpa… le cose non sono come vengono dette, so io il racconto da fare per capire, bisogna cedere…
bisogna che altri cedano, oppure bisogna non cedere, bisogna dare/bisogna non dare, le armi a Zelenski, anzi no da una parte ha ragione Putin, ma insomma non del tutto, è la Nato che ha bombardato Belgrado, e poi si è allargata, e ma vuoi mettere quanto è bella la cultura russa, i romanzi russi, la Madre Russia, e ma Kiev, Sebastopoli, Odessa….»
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(Chagall, Contadini Ucraini)
Tutto questo come se riguardasse altri da noi.
Ma non è così. Siamo degli esseri caduchi, perituri, viviamo nella temporalità e a malapena ci rendiamo conto del nostro respiro che già in un lampo si avventa la nostra fine. Non facciamo in tempo a scordare il lezzo acre dei pannolini intrisi di cacca del letto d’ infanzia, che siamo pronti per l’odore di canfora del cuscino obituario. Se la nostra propria ipsissima morte è impensabile, forse – dicono i filosofi – è pensabile la sopravvivenza degli altri, giorno dopo giorno, dopo il nostro trapasso, forse pensabile è anche lo spegnersi totale dell’esistenza consapevole, o meglio non-individualizzabile, allo stesso modo che ignoriamo, nella percezione, da svegli, quando ci addormentammo, ma possiamo pensare quel momento come distinto. Una tomba in un cimitero ci è comprensibile, lo spegnersi del mondano nel neutro «è stato», dell’umano totale in cui non s’ ode più alcuna voce, forse, forse è meno comprensibile. Gunter Anders lo chiama il Mostruoso. E appunto, se non è questo il caso, se non è mai il caso di nulla, se non saremmo mai pronti all’avvento del Mostruoso, perché esso ci colpirà come un ladro nella notte (1 Ts 5,2) almeno l’immaginazione può venirci in aiuto, attraverso il grado zero della sua paradossale ed ossimorica potenza: l’inimmaginabile, che deve destare la nostra attenzione. Sono questi i momenti in cui si vorrebbe aver appreso la tecnica, o meglio l’arte della grande poesia, e come Foscolo scrivere un carme sepolcrale sull’umanità:
All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
Confortate di pianto è forse il sonno
Della morte men duro? Ove più il Sole
Per me alla terra non fecondi questa
Bella d’erbe famiglia e d’animali,…
…
PS.Ho sentito in tv un ambasciatore dire che c’è un divario, una distanza incolmabile tra il diritto privato e il diritto internazionale. Questo ultimo è assai regredito, arcaico, primitivo. Ma che diritto hanno gli Stati – mere finzioni e funzioni giuridiche – di dichiarare guerra e addirittura a minacciare la vita della popolazione mondiale ? Non sarebbe il tempo di ribellarsi – da parte dei cittadini del mondo – a questa presunzione delle grandi potenze di minacciare lo sterminio – nonché, prima ancora il dominio – sull’essere vivente? E la guerra, questa istituzione neolitica, non è tremendamente arcaica, passata, fuori del tempo? Non abbiamo il diritto alla libertà dalla paura?
Insomma, la Guerra, lo Stato, le Potenze, le Bombe nucleari, non sono tutte cose tremendamente passate di moda?
PPS. Bisogna ritornare a leggere filosofia, a fare filosofia, seriamente, cioè a porre le domande di base. Di nuovo. Da capo. Come se fossimo nel 1922. Ma subito, stanotte. Domani potrebbe essere troppo tardi.
Al momento di marciare molti non sanno
che alla loro testa marcia il nemico.
La voce che li comanda
è la voce del loro nemico.
E chi parla del nemico
è lui stesso il nemico. (Brecht)
(continua?)
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