Filosofia
Nancy, filosofo della fine e del nuovo inizio
Il 23 agosto si è spento, a ottantuno anni, Jean-Luc Nancy, voce prestigiosa dell’intellettualità internazionale, che ha a lungo indagato le problematiche politico-sociali e la funzione della corporalità nelle dinamiche intersoggettive e comunitarie dell’epoca contemporanea. Già professore di Filosofia alle Università di Strasburgo e di San Diego, membro del Collège International de Philosophie, è stato esponente del decostruzionismo insieme a Jacques Derrida e a Philippe Lacoue-Labarthe. Nancy si è occupato di molte questioni legate all’attualità, indagando con vivace e generoso slancio intellettuale l’esistenza umana nelle sue espressioni basilari: dall’estetica alla critica letteraria, dalla religione al concetto di gratuità, dalla libertà personale all’esperienza amorosa, dalla sessualità alla malattia. Autore di testi filosofici fondamentali (L’assoluto letterario, Il mito nazi, La comunità inoperosa, La dischiusura, Essere singolare plurale, Il corpo, L’intruso), aveva negli ultimi anni fatto sentire la sua voce allarmata riguardo ai problemi dell’emigrazione e dell’inquinamento, convinto assertore del doveroso impegno comune nei confronti dell’altro, perché “noi siamo” nel momento in cui “siamo-con”, “co-esistiamo”.
Nel 2011 era stato invitato dall’Università di Tokyo a tenere una video-conferenza sul tema Fare filosofia dopo Fukushima, il cui testo provocatorio e inquietante è stato pubblicato dalle edizioni Mimesis con il titolo L’equivalenza delle catastrofi, introdotto da un impegnativo saggio di Giovanbattista Tusa.
Di cosa parlava allora Nancy? Sostanzialmente della nostra apocalisse prossima ventura, pressoché inevitabile se non si metterà mano a un cambio di rotta radicale nelle abitudini di vita, nella ricerca scientifica e tecnologia, nell’indirizzo economico e nelle scelte politiche dell’intero pianeta. Viviamo in un mondo disorientato e disordinato, assemblato in molteplici e confuse forme prive di una prospettiva comune e condivisa di sviluppo: un mondo capace solo “di moltiplicare l’immondo”, in cui qualsiasi emergenza naturale (terremoti, inondazioni, siccità, eruzioni vulcaniche…) diventa calamità epocale e senza confini. Così è stato per Fukushima, il cui nome rievoca tragicamente nella rima il primo olocausto nucleare di Hiroshima: lì un sisma e lo tsunami che ne derivò provocarono un disastroso collasso tecnico, con ripercussioni sociali, ecologiche, sanitarie, economiche, politiche di cui è ancora oggi impossibile tracciare un limite, un perimetro nel tempo e nello spazio. Ciò avviene ogni qual volta nel mondo accada un incidente chimico o nucleare, un’improvvisa e imprevista epidemia, uno sconquasso della natura: tutto ciò produce “un’interconnessione, un intreccio e persino una simbiosi” degli effetti della catastrofe, che si riflette su ogni scambio culturale, politico ed economico globale. Oggi tanto più evidente con la pandemia prodotta dal Covid-19.
Se Adorno rifletteva sull’impossibilità di scrivere poesia dopo Auschwitz, c’è da chiedersi se sia ancora lecito oggi fare filosofia dopo Fukushima, dopo ogni devastante cataclisma, dopo le stragi di guerra e gli atti di terrorismo, dopo i crolli finanziari che coinvolgono le economie nazionali. Nancy accusa l’intero occidente capitalistico di aver creato negli ultimi due secoli una complessità di sistemi interdipendenti, con l’unico fine del profitto economico e dell’accumulazione monetaria, per cui ogni avvenimento locale si ripercuote a livello universale, con conseguenze inarrestabili e imprevedibili. In questo senso, tutte le catastrofi sono equivalenti, e ad esse non si riesce più a opporre margini e a dare risposte in senso filosofico o religioso: l’energia atomica, anche ad uso civile, rimane un pericolo potenziale dagli effetti spaziali e temporali immisurabili, eccedenti le capacità di controllo tecnico e politico di qualsivoglia superpotenza. “La vita nelle sue forme, i suoi rapporti, le sue generazioni e le sue rappresentazioni, la vita umana nella sua capacità di pensare, creare, gioire o di tollerare è precipitata in una condizione peggiore dell’infelicità stessa: uno stordimento, uno smarrimento, un orrore, uno stupore senza appello”.
Che fare, quindi? Come salvare noi stessi e le generazioni future da questo orizzonte apocalittico che ci sovrasta, se ogni catastrofe naturale può diventare una catastrofe di civiltà che si propaga illimitatamente? Ripensando tutto, suggerisce Nancy. A cominciare da un’idea utopistica di sviluppo inarrestabile, di crescita economica e tecnica proiettata in un domani sempre più ricco e perfetto. Pensare il presente, lavorare per il presente, migliorare il presente. Abituarci all’idea di rifondare una civiltà che, modificando le esasperazioni economicistiche attuali, aiuti a preparare un domani vivibile e sostenibile per tutti, nel quale “la produzione conti meno dell’attenzione al fatto stesso della nostra esistenza”, alla “strana grazia che ci è fatta di esistere”.
JEAN-LUC NANCY, L’EQUIVALENZA DELLE CATASTROFI – MIMESIS, MILANO 2018
Prefazione di Giovanbattista Tusa, p. 68
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