Filosofia

Microchip sottocutanei, transumanesimo e altri racconti dal futuro

14 Novembre 2018

La società britannica Bio Teq, ultima di una discreta schiera, sta cominciando a riversare sul mercato alcuni microchip impiantabili sotto la pelle. Gli eventuali acquirenti? Singoli individui in vena di sperimentazioni eccentriche e, soprattutto, aziende vogliose di testare i benefici derivanti dalla possibilità di un maggiore controllo sui propri dipendenti.

Fisiologica l’agitazione dei sindacati del Regno Unito, preoccupati per il diffondersi del fenomeno e per le annesse ripercussioni sui diritti dei lavoratori. Basti pensare che negli Usa non solo già esistono i microchip workers, ma esistono anche i chip party per i microchip workers, organizzati, supponiamo, dagli addetti alla felicità o da altre figure professionali affini di cui va solitamente fiera la new economy: biopotere e long drink, il binomio perfetto.

Ora, tali dispositivi contactless, oltre ad alzare nell’immaginario collettivo l’asticella della fantascienza a breve termine e a far montare impeti luddisti in chiunque ne rimanga angosciato, in concreto, funzionerebbero alla stregua di quelli adoperati per gli animali da compagnia, permettendo agli utilizzatori di aprire porte senza dover girare una maniglia, di pagare evitando di prelevare contanti o carte di credito dal portafoglio, di accedere in esclusiva a un computer, di immagazzinare dati. Una nuova tecnologia che non interviene sul corpo umano per salvaguardarne la sopravvivenza, come avviene ad esempio in ambito medico, ma per incrementarne le abilità.

Acquisizioni, a veder bene, forse sorprendenti per il pubblico nostrano, ma di impatto più blando una volta allargati gli orizzonti geografici. In terra svedese, addirittura, si stima che circa 3500 persone si siano sottoposte di propria iniziativa all’inserimento sottocutaneo di questi microchip. Intraprendenza giustificata dalla sociologia da outlet con il ricorso a una maggiore apertura mentale delle popolazioni scandinave nei riguardi dell’innovazione tecnologica. Apertura mentale che sarebbe comprovata dal prendere piede di alcune curiose tendenze culturali. Su tutte, il transumanesimo. Che teorizza esplicitamente il superamento dei limiti della condizione umana per mezzo della tecnologia e che pone tra i propri obiettivi un’umanità aumentata in grado di direzionare in totale autonomia la propria evoluzione, accelerandola ed eliminando la componente di casualità prevista dalla darwiniana selezione della specie. L’ortodossia transumanista, più “ambiziosa” del simpatizzante medio, si spinge persino a contemplare piste futuribili (vocabolo debole date le circostanze) quali l’eliminazione dell’invecchiamento o l’abolizione della morte, magari con il perdurare della coscienza su supporto informatico: non chiedeteci come e non fateci immaginare il perdurare di alcune amabili coscienze di nostra conoscenza…

A tal proposito, Heidegger direbbe che “l’uomo tecnologico vive così sicuro di sé nel senza fondo dell’oblio della propria finitezza” da compiere il destino nichilistico della metafisica. Per farla breve, il progresso tecnologico, secondo la prospettiva del filosofo tedesco, sarebbe talmente pervasivo da precedere ogni tentativo di autentica adesione alla realtà, inducendo, in chiunque ne sia assorbito, una rimozione emotiva della finitezza, del sapersi mortale, e scoraggiando, di conseguenza, quelle pulsioni metafisiche in grado di inquadrare e rassicurare la precarietà dell’esistenza umana offrendole un Senso ulteriore, un Senso in maiuscolo.

Ok. Tutto molto interessante. Ma, a quanto pare, Heidegger non aveva fatto i conti con il futuro sbocciare della dottrina transumanistica. La quale, pur essendo hi-tech friendly più di qualunque altra forma pregressa di scientismo fanatico, lungi dall’occultare il morire, se ne fa invece carico, auspicando, per paradosso, la realizzazione del sogno metafisico originario: la coscienza affrancata dal corpo. Una metempsicosi informatica, un platonismo ai tempi della Casaleggio Associati.

Sarà una coincidenza che quelle stesse terre che hanno assistito alle numerose scorribande otto-novecentesche dell’esistenzialismo, preconizzandolo e declinandolo a 360 gradi (da Kierkegaard, passando per Munch, fino a Bergman), adesso subiscano la fascinazione del transumanesimo? Non conosciamo la risposta, né vogliamo improvvisarla.

Tuttavia, ciò che vorremmo davvero capire, e non per spirito di retroguardia, è se la società globale, su larga scala, stia sviluppando un’adeguata riflessione in merito alla rivoluzione tecnologica permanente di cui è “vittima” o se si stia limitando semplicemente a subirla. Un’evoluzione tecnologica forsennata non supportata da una corrispondente evoluzione di pensiero, d’altronde, rischia di diventare un campo minato, e non solo per le teste metafisiche della vecchia scuola.

Per il momento, in assenza, anche in questo caso, di una risposta risolutiva, diciamo solo che microchip workers e transumanisti suggerirebbero qualcosa in più di un cauto pessimismo.

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