Famiglia

Mettersi in ascolto: il paradosso del “familiare”

22 Ottobre 2021

Caro Cigno Nero,

il rapporto fra genitori e figli è sempre stato difficile, ma oggi lo è ancora di più, soprattutto per le nuove e strane forme di “competizione” tra generazioni. Si pensi, ad esempio, ai maldestri tentativi di ragazzi impegnati a “bruciare le tappe”, da una parte e, dall’altra, al goffo giovanilismo di mamme e papà, convinti di dover “interpretare” sempre e solo il ruolo di AMICI dei figli. Di certo questa prospettiva non giova né ai genitori né ai ragazzi. Dalla convergenza, invece, degli obiettivi educativi di genitori e insegnanti vengono rafforzate l’autostima e la serenità psico-affettiva del giovane, nella difficile conquista di un sé sempre più ADULTO. L’ adulto, per essere tale, deve saper avere cura di sé, anche per prendersi cura dei figli.
Tutto questo mi era chiaro quando avevo contemporaneamente il ruolo di madre a casa e di docente a scuola. L’unica cosa che mi ha creato problemi è stato il sentirmi dire dai miei figli: “Allora non mi ascolti!”. Eppure venivo elogiata dagli alunni proprio per la capacità di ascolto. Che ruolo ha l’ascolto nella relazione educativa? E chi ci insegna ad ascoltare?

Olga

 

Cara Olga,

c’è chi lo chiama il mestiere più difficile del mondo, chi una vocazione, fatto sta che essere genitori, per scelta o per caso, non è mai facile. Ma, questo va detto, non lo è nemmeno essere figli. La difficoltà è data principalmente dai ruoli che, dando senso e identità a ciascun attore in quel contesto sistemico che è la famiglia, possono anche generare un conflitto nell’incontro tra mondi diversi che custodiscono una diversa narrazione del Sé.

Il rapporto genitori-figli è cambiato nel corso del tempo: più rigido, meno sentimentale, incentrato sulle regole e su una chiara e netta distinzione dei ruoli in passato, oggi vive di una affettività più esplicita – per fortuna direi – che però in alcuni casi ha lasciato totalmente da parte l’aspetto delle regole, generando confusione anche sui ruoli. Se è molto più frequente di questi tempi vedere genitori amici dei figli (con tutto quello che comporta), i figli che desiderano bruciare le tappe sono assai di meno rispetto al passato. I ragazzi che vivono questo presente cercano proprio nel loro essere (e restare) ragazzi un rifugio per tenersi al riparo dall’angoscia che l’incertezza sul futuro può portare con sé. In altre parole, si preferisce rimandare il più possibile il momento in cui, crescendo, si è chiamati ad assumersi responsabilità, a fare i conti con certi doveri e accettare qualche compromesso.

Per addentrarci meglio nel tema credo però sia necessario partire da una premessa tutt’altro che scontata: che si tratti dell’essere genitori o dell’essere figli, vale ciò che vale per l’essere umano in generale, cioè l’irripetibilità del singolo. Ogni individuo che diventa padre o madre entrerà in quella dimensione esistenziale portando con sé anche il suo essere stato figlio, la sua storia affettiva, le sue esperienze e i modelli comportamentali interiorizzati più o meno consapevolmente. Dall’altro lato, ogni figlio o figlia vivrà, crescendo, un conflitto tra un’immagine di sé che è in divenire, e quindi influenzabile, e il ruolo ricoperto all’interno del sistema-famiglia; un ruolo che, anche quando non ci si riconosce in esso, dice: “Tu esisti”.

Quello tra genitori e figli è un rapporto che va costruito per passi, aggiustamenti ed equilibri sempre da ristabilire, cercando di non dimenticare che non si è mai solo genitori o solo figli. Resta il fatto, come tu stessa dici, che l’educazione è fondamentale, perché, tra le altre cose, è il tramite per i valori. Ma l’educazione non è mai un processo a senso unico, e se è indispensabile ai figli per diventare adulti sereni con una buona autostima, ogni genitore non dovrebbe sottovalutare come la loro crescita non possa prescindere dalla sua, cioè dal crescere insieme.

Tra le cose più difficili da gestire nel rapporto tra un genitore e un figlio c’è sicuramente il far convivere il piano razionale con quello emotivo. Ce ne rendiamo conto, se siamo genitori, ogni volta che oscilliamo tra la consapevolezza che i figli non ci appartengono e quel bisogno di sostituirci a loro nelle scelte, convinti di farlo per il loro bene; e ci è molto chiaro, da figli, combattuti tra il timore di deludere una madre o un padre e la necessità di emanciparci da loro per costruire la nostra identità. Ed è esattamente nello scarto tra il ruolo che dice “tu esisti” e quel “allora non mi ascolti!” (che testimonia la necessità di raccontarsi rompendo il perimetro del proprio ruolo) che va ripensato un legame che per sua natura è giocato sulle differenze e non si esaurisce nelle somiglianze. Quel “non mi ascolti” nasconde una richiesta, è un modo per dire: “Accettami, riconoscimi, anche nella differenza, soprattutto nella differenza, nel mio essere altro dall’immagine che hai sovrapposto alla mia”.

Nella tua esperienza l’ascolto ritorna nel doppio ruolo di madre e docente. Forse è proprio da qui, allora, che possiamo provare a intravedere una diversa prospettiva. Scuola e famiglia sono caratterizzate da una differenza sostanziale giocata sul concetto di familiarità: se nella relazione genitori-figli la familiarità ha il doppio significato di “noto per consuetudine” e “legato da rapporto di parentela”, in quella insegnanti-studenti la familiarità viene acquisita – ma non per questo è meno significativa –, poiché nasce da una diversa quotidianità condivisa e da ruoli differenti rispetto a quelli che si hanno all’interno della propria famiglia.

Ma, qui sta il punto, è proprio nella familiarità tipica della famiglia che prendono corpo e forma quei conflitti che sembrano irrisolvibili originando da due desideri contrapposti: quello del genitore, che vuole vedere nel figlio il proprio rispecchiamento per assicurarsi di aver fatto un buon lavoro con lui; e quello del figlio, che a sua volta vuole vedere realizzata a tutti i costi l’immagine interiore che si è formato del proprio genitore.

Ci può allora essere utile riflettere su questo: ogni relazione al suo inizio, prima cioè di diventare familiare, non contempla il conflitto, perché l’ascolto che la sostiene è nutrito di curiosità e quindi di reciprocità. Il familiare, portando con sé previsioni e aspettative sull’Altro, che ci si è rivelato attraverso comportamenti, gesti, parole di confidenza, diventa così anche il luogo del conflitto, quando le aspettative vengono deluse. Le aspettative disattese scoprono, o meglio, riscoprono, quella componente di mistero nell’Altro che, come ha sottolineato Lévinas, non ci sarà mai totalmente accessibile. Ma si tratta di una scoperta che, invece di risvegliare la nostra curiosità riportandola nella relazione, ci lascia nel conflitto, che è una comunicazione tra interlocutori assenti, dove ognuno rivolge l’attenzione al proprio Sé. Quando in famiglia la comunicazione non sembra funzionare è perché il presupposto da cui partiamo è proprio la familiarità, che ci fa dare per scontato l’Altro, figlio o genitore che sia, dal momento che “già sappiamo” cosa pensa, come reagisce, da cosa è infastidito. E qui sta il paradosso. Saperlo non ci porta ad una maggiore attenzione nella scelta delle parole e dei toni, né ad una cura che rispetti spazi e tempi di quel famoso Altro-da-sé, che non dovrebbe essere oggetto del nostro prenderci cura, ma soggetto autonomo di cui aver cura, come ci ha ricordato Heidegger.

“Familiare”, insomma, nel doppio significato del sostantivo e dell’ aggettivo, ci fa pensare che non ci sia bisogno di tutte quelle cose che crediamo essere “formalità”, che piuttosto riserviamo alle relazioni “nuove”. Cose che sono però il presupposto di quell’ascolto autentico che pure ricerchiamo.

Ti domandi se l’ascolto si possa imparare. Sicuramente alla sua base c’è una condizione tautologica, visto che senza ascolto non c’è apprendimento reale, apprendimento che però deve anche passare dal saper ascoltare sé stessi, con i propri limiti e le incoerenze. Credo che si tratti più in generale di esercitarsi ad un diverso sguardo su un mondo che dobbiamo, invece, disimparare a dare per scontato, resistendo alla tentazione di farci profeti di profezie che si autoavverano.

Tutto questo non farà di noi genitori perfetti o figli modello, ma proprio per questo ci ricorderà, come genitori, per poterlo poi insegnare ai nostri figli, che la perfezione è sempre manchevole, perché non ha altro da dire, imparare e scoprire su sé stessa.

 

 

 

La differenza è l’aspetto della vita con cui facciamo più fatica a relazionarci. Differenza di vedute, di idee e ideologie, ma anche di culture e appartenenza. In tutti questi casi si genera un conflitto, che però è anche interiore, tra ciò che ci è familiare e ciò che ci resta estraneo, quindi distante. La differenza in sostanza minaccia la nostra identità. Ma se la incontriamo nel “familiare”, da dove proviene la minaccia?

 

Maria Luisa Petruccelli

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