America

Meno politica per una migliore democrazia?

5 Agosto 2019

Nel mese di giugno, alcuni studiosi e collaboratori di More in Common, un’iniziativa internazionale attiva negli Stati Uniti, in Francia, in Germania e nel Regno Unito che promuove il contrasto alla polarizzazione e alle divisioni nelle nostre società, hanno pubblicato un’interessante ricerca riguardante ciò che pensano gli americani nei confronti dei propri avversari politici e basato sul concetto di perception gap, ovvero sulla discrepanza che esiste tra l’idea che abbiamo di ciò che pensano e di ciò in cui credono coloro che votano un partito o uno schieramento opposto, e ciò cui pensano e in cui credono realmente.

A un gruppo di individui che si sono autoidentificati come repubblicani, democratici o indipendenti, i ricercatori hanno sottoposto un insieme di domande riguardanti le posizioni dei due schieramenti politici principali: ad esempio, le domande “repubblicane” riguardavano l’accordo o il disaccordo con frasi come “molti musulmani sono buoni americani” oppure “il razzismo esiste ancora in America”, mentre quelle “democratiche” potevano riguardare dichiarazioni tipo “gran parte dei poliziotti sono cattive persone” oppure “gli Stati Uniti dovrebbero avere confini completamente aperti”. Ai partecipanti è stato inoltre chiesto quale percentuale del gruppo avversario, secondo loro, crede in una certa affermazione. Infine, è stato domandato di definire gli avversari politici (come onesti, indottrinati, razzisti, ragionevoli ecc.) e da quali fonti i partecipanti solitamente si informassero.

Pur con tutti i limiti del caso (i ricercatori stessi segnalano il problema di aver utilizzato due gruppi di domande diversi), le conclusioni di questo studio sono degni di nota seppur, per certi versi, anche controintuitivi. Sia i democratici sia i repubblicani, ad esempio, sovrastimano in maniera sostanziale il numero di avversari che sostengono posizioni estreme, mostrando entrambi un perception gap più elevato di quello degli indipendenti (benché rimanga significativo anche quello di questi ultimi): su immigrazione e razzismo, i democratici pensano che solo metà dei repubblicani considerino il primo come positivo, se controllato, e il secondo un problema ancora esistente (in realtà, attorno all’80% dei repubblicani partecipanti alla ricerca sostiene la bontà di un’immigrazione controllata e ritiene il razzismo tuttora un elemento problematico), mentre la loro valutazione dello schieramento opposto è più corretta per quel che riguarda il giudizio su Donald Trump o il cambiamento climatico. Lo stesso discorso vale a parti invertite: ad esempio, il 70% circa dei rispondenti democratici è contrario a una politica di confini aperti e sostiene il diritto di portare le armi, ma secondo i repubblicani della ricerca la percentuale è assai più bassa.

Ancora più curiosa è la conclusione a cui sono giunti i ricercatori dividendo il loro campione in sette gruppi, dalle ali più estreme (attivisti progressisti da un lato, e conservatori tradizionali e conservatori devoti dall’altro) al centro più moderato. Ebbene, secondo i risultati, coloro che hanno una percezione più accurata, cioè un perception gap inferiore, sono i centristi, e, tra questi più di tutti, coloro che sono meno impegnati e meno informati politicamente.

C’è, poi, la parte controintuitiva della ricerca, che è la seguente: c’è maggiore perception gap nei gruppi di coloro che si informano di più dalla radio, dalla tv o sui giornali, e che sono più attivi sui social media. Coloro che si informano “gran parte del tempo” hanno una percezione tre volte meno accurata dell’altro rispetto a chi lo fa solo di tanto in tanto. Per quel che riguarda l’educazione, infine, appare un dato particolare: nel caso dei democratici, e non dei repubblicani, emerge una maggiore percezione errata tra coloro che hanno un titolo di studio elevato.

Le conclusioni di questa ricerca, secondo cui a) gli americani sono in disaccordo tra loro meno di quanto credono e b) maggiore è il perception gap, più alte sono le probabilità di attribuire all’avversario qualità negative, sembrano confermare a prima vista l’elaborazione di un filosofo americano, Robert B. Talisse, della Vanderbilt University di Nashville nel Tennessee. Secondo Talisse, infatti, la polarizzazione riduce lo spazio per il compromesso politico che spesso è necessario, e crea le condizioni per situazioni di stallo e mancanza di decisioni. Il problema diviene ancora più evidente quando discutiamo esclusivamente o quasi con persone che hanno opinioni simili alle nostre, perché, in tal caso, tendiamo a consolidare sempre più le nostre credenze, divenendo sempre più estremi nelle nostre convinzioni. Benché una certa dose di conflitto in democrazia sia necessaria e fisiologica, il consolidamento delle nostre convinzioni ci porta sempre più a considerare l’avversario politico come una persona poco assennata, ignorante, irrazionale, e quindi a ridurre la nostra fiducia nei suoi confronti, anzi, facendo aumentare risentimento e divisioni nella società e incentivando nei partiti e nei nostri rappresentati politici la volontà di sottolineare le differenze e di isolarsi, in un circolo vizioso che potrebbe colpire la salute delle nostre democrazie. Questa sfiducia nei confronti di chi non la pensa come noi, sostiene Talisse, si amplifica, e il giudizio politico diviene un giudizio morale e sulle qualità intellettuali, espandendosi fino a tutti gli aspetti della vita dell’avversario politico, per cui andare in una catena di supermercati e non in un’altra, scegliere un canale tv, praticare questo o quello sport ecc. sono tutti segni, alternativamente, di bontà o depravazione politica, e quindi morale e intellettuale.

Un approccio bipartisan e uno sforzo comune nel dialogare con chi è dall’altra parte della barricata (o magari, più terra terra, una diversificazione politica del nostro feed su Facebook o Twitter) potrebbero ritenersi possibili soluzioni a questo male della democrazia contemporanea. Talisse si basa su studi che mostrano però come, a polarizzazione avvenuta, il confronto con l’altro porti solo ad esacerbare ancora di più le divisioni politiche – insomma, sembrerebbe più essere, quella del dialogo in un foro comune, una strategia di prevenzione, non di cura. Una risposta alternativa, allora, può essere la depoliticizzazione, cioè il lasciare fuori la politica da spazi della nostra vita in cui si è infilata in maniera profonda. In altre parole, l’esistenza di attività condivise e luoghi di cooperazione dove la politica non sia messa da parte, ma sia irrilevante, potrebbe essere un modo per permettere alla nostra democrazia di prosperare, cioè la politica deve essere rimessa al suo posto. Abbiamo bisogno di fare cose che non sono politiche, visto che la politica, ormai, addirittura influenza la nostra capacità di agire e immaginare a livello sociale – e Talisse è conscio della problematicità della sua proposta, perché le categorie della politica e dei partiti si sono totalmente infiltrate nella nostra vita.

Queste sono riflessioni fatte soprattutto in riferimento a esperienze statunitensi, ma anche qui in Europa e in Italia possiamo riconoscere come la polarizzazione politica sia ovunque: mentre una volta una certa marca di abbigliamento o un certo tipo di vacanza potevano essere, forse, un segno di distinzione di classe, da tempo, invece, queste marcano un’appartenenza politica proprio come le trasmissioni televisive preferite e il cibo che mangiamo. Togliere la politica da una parte delle nostre vite, tornare a quell’idea della democrazia rappresentativa intesa, tutto sommato, come opposta a quella ateniese perché non abbiamo mica tempo di occuparci sempre della cosa pubblica, potrebbe essere una soluzione almeno da considerare nel tentativo di depolarizzare il discorso politico nelle nostre democrazie.

La foto di copertina è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 2.0 Generico. L’autore della foto è Alisdare Hickson.

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