Filosofia
Martin Buber. Cinquant’anni dopo c’è solo il silenzio
A un anno di distanza dalla morte di Martin Buber (1878-1965) Gershom Scholem lo ricorda con una riflessione dove non tace della sua distanza, della sua diffidenza, ma con un afflato che sarebbe difficile non cogliere anche nella sua emozione. Quelle considerazioni, aspre in alcuni punti, ma vere come è giusto che sia il confronto tra intellettuali militanti che sanno di avere contratto reciprocamente debiti, costituiscono gli aspetti salienti, anche se non unici, di un saggio di grande spessore di Scholem che Giuntina ha mandato in libreria la settimana scorsa con il titolo Martin Buber, interprete dell’ebraismo. Al di là delle valutazioni di Scholem, parlare di Buber oggi è significativo anche tenendo conto di un aspetto diverso, non meno eloquente.
L’uscita del testo di Scholem cade con il cinquantesimo della morte di Buber (oggi, 13 giugno), anniversario passato sotto silenzio. Un silenzio eloquente a suo modo, non solo su di noi, ma anche su di lui. Martin Buber, infatti, è un personaggio inquietante del Novecento perché figura difficilmente collocabile in un tassello disciplinare preciso. Per quanto inquadrato prima in Germania tra anni ’20 e ’30 come docente di teologia e poi dal 1938 in Israele, come docente di filosofia sociale, risulta una figura troppo policroma per essere ridotto solo a questi due ambiti.
Buber non era un semplice “cultore di materia”, ma rappresenta un esempio di uomo di frontiera, disciplinarmente e politicamente, che il Novecento, secolo delle discipline specializzate e delle mono-competenze, ha lentamente abolito o soppresso.
Buber è stato contemporaneamente, letterato, biblista, teologo, sociologo, scienziato della politica, filosofo. Soprattutto si potrebbe dire è stato un grande comunicatore, una professione, questa sì, tutta novecentesca. Ma questa condizione, paradossalmente, non ne fa un personaggio facilmente adattabile.
Per gran parte della sua vita Buber, pur agendo da connettore con le voci ebraiche e non più eminenti del Novecento (Arendt, Scholem, Rosenzweig, Kafka, Silone, Rilke, Hofmannsthal) è stato solo.
È stato solo nella sua critica al sionismo politico; è stato solo in Germania a fronte di un mondo ebraico che perdeva coscienza di sé; è stato solo all’ interno del movimento socialista tedesco, con cui pure ha lavorato a lungo, troppo inebriato dal “fascino della tecnica” per prestare ascolto alla sua riflessione su morale e politica; è stato solo in Israele per le sue posizioni favorevoli al dialogo con i palestinesi; è stato solo al termine della sua vita quando (1961-1962) pressoché unico levò la sua voce perché Eichmann non fosse ucciso e la sua morte rappresentasse solo il simbolo riparatore di una tragedia del Novecento (come scrive Arendt ne La banalità del male, Feltrinelli, pp. 256-258).
Ha scritto Furio Jesi che nel 1963 “nonostante l’ostilità che si era concentrata contro di lui in occasione del processo Eichmann, gli studenti dell’ università di Gerusalemme avevano celebrato – travalicando in una sorta di festa i confini della manifestazione ufficiale – il suo ottantacinquesimo compleanno. Nelle fotografie si vede Buber piccolo, con la sua aria di mitissimo gnomo, in mezzo a una folla che lo stringe e lo sovrasta, certa di garantirgli una sorta di solidarietà nell’ utopia” (Furio Jesi, Introduzione, a Martin Buber, Racconti dei chassidim, Garzanti, p. XIV).
È un’immagine pregnante e che riassume efficacemente la vita di Martin Buber, un “uomo piccolo” che è passato fra noi.
Quello di Buber con il mondo è un vero e proprio Vergegnung ovvero un incontro mancato, un appuntamento cui solo Buber ha cercato di attendere ma che quasi sempre non ha avuto riscontro e conforto, non degno di ricordo o di riflessione se cinquant’anni dopo la sua morte, oggi nessuno, letteralmente se lo ricorda. Forse, per ceti aspetti, ci sarebbe da stupirsi del contrario.
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