Filosofia

L’ospite divino nella poesia di Fuad Rifka

31 Agosto 2022

Fuad Rifka, nato nel 1930 in un piccolo villaggio della Siria ed emigrato in gioventù a Beirut, per anni ha insegnato filosofia alla Lebanese American University. Profondo conoscitore della poesia tedesca, ha tradotto in arabo Goethe, Novalis, Hölderlin, Rilke, Trakl. È morto a Beirut nel 2011.

Nel volume L’ultima parola sul pane, pubblicato recentemente dalle edizioni pugliesi AnimaMundi,  viene suggerita con levità e dolcezza la necessità di camminare con il mondo e insieme oltre il mondo, lontano da ogni brama di possesso e di successo, nella contemplazione serenamente meditativa dell’essere. Sempre in attesa di una rivelazione che porti pace e salvezza, di un respiro capace di promettere, anche solo per un attimo, sospensione e sollievo da angoscia e paura (“Arriva all’improvviso, / quest’ospite divino e / poi va via dietro una curva ignota”), Rifka fa riferimento a un aldilà sovrasensibile che non sa e non può essere detto, ma solo intuito nella sua ineffabilità.

Ciò su cui insistono nei loro commenti il prefatore Tomaso Tiddia, i postfatori Paolo Ruffilli, Rossana Abis che l’ha incontrato e Ottavio Rossani che l’ha intervistato nel 2008, è l’intensità del suo sguardo contemplativo, l’assoluta trasparenza della sua scrittura, “depurata da ogni ideologia e cultura”: invito a dimenticare e a dimenticarsi, in un oblio del bene e del male che riesca a sanare qualsiasi ferita. Diario: “Che tu veda il giorno, o no, / comunque lo rimpiangerai. / Che tu ti faccia grande, o no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu conosca l’amore, oppure no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu possa invecchiare, o no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu giunga a morire, o no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu rimpianga, o no, comunque lo rimpiangerai”.

Questa “poesia di raffinata povertà” ci avvicina alle dottrine spirituali dell’Oriente, non solo arabe, proprie della meditazione sufista fino a Rumi, ma anche dei maestri zen cinesi e giapponesi. Ritroviamo l’annullamento dell’io indicato da Li Po (“Sediamo insieme, la montagna e io, finché solo la montagna rimane”) nella descrizione fatta in La Capanna del Sufi: “Sta seduto immobile, / in un posto coperto tutto di muschio. / Mai stanco di stare lì seduto / resta in silenzio. // Due pietre: lui e la roccia”. La rinuncia, come strada maestra verso l’essenzialità e la purificazione, era già stata predicata da Plotino (Aphele panta, elimina tutto), poi da Marco Aurelio, dai mistici renani, dal monachesimo cristiano, fino a Nietzsche (“Divina è l’arte del dimenticare”). Niente permane, tutto finisce ed è destinato a sparire; persino la poesia (soffio di vento, ombra) non ha e non deve avere una vita duratura: solo l’eternità merita se stessa, nel silenzio. Il poeta, sacerdote dell’invisibile, diventa tale quando “i suoi occhi vedono la luce … dimenticando la poesia”, anch’essa serva della parola scritta ed enunciata, pertanto deperibile.

Fuad Rifka divide la vita dell’uomo in tre fasi: la fanciullezza, che è sogno, ingenuità, abbandono fiducioso all’accadere; la maturità, con le sue ansie di conoscenza, amore, avventura; la vecchiaia, nel rassegnato ripiegamento interiore, in attesa della fine liberatrice (Percorso: “Nella nostra infanzia / apriamo la porta e dormiamo / come riposa la preghiera / tra le foglie di Dio. // A mezzogiorno / chiudiamo la porta e poi partiamo / nei venti rossi di sabbia, dentro la bufera, / dietro alle tracce del diluvio e del miraggio. // La sera infine / l’ombra si accorcia e si cancella / come un giorno d’estate nel cuore dell’inverno”). Nella materialità delle giornate quotidiane, ci ritroviamo “le mani piene / di fumo e di paura, / e i visi spenti”, perché siamo “una ferita, / e siamo dei torrenti / senza letto e foce, / siamo campane al transito del tempo”. Rassegnati alla nostra finitezza fisica “Finiremo così, naturalmente, / come un fiore di campo, / come un fiore che dice: / “È già tempo di neve, amico mio, / e le stagioni prossime a finire”.

La parola poetica, semplice e sacra come il pane, nonostante la sua fragilità può agire come una liturgia rituale e profetica, lontana da qualsiasi confessionalismo, trasformando il nostro vissuto concreto in aspirazione all’assoluto, connettendoci con l’infinito, senza la presunzione di comprendere il mistero che ci fa esistere.

 

FUAD RIFKA, L’ULTIMA PAROLA SUL PANE – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2022, p. 72.

A cura di R. Abis, F. Mancinelli.

Traduzione di Piero Bruno, Adnan Haydar, Paolo Ruffilli e Aziz Shihab

 

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