Filosofia
Lo stato di natura
La prima pandemia del XXI secolo è stata da molti descritta attraverso la metafora della guerra, un artificio retorico che sembra descrivere efficacemente i mesi più bui del bombardamento virale ed assieme il periodo di attesa dell’ondata ventura, di cui oggi i bollettini giornalieri di malati, ricoverati e morti scandiscono i prodromi. I media hanno sentito la necessità di definire i contorni di quella che sarebbe diventata una nuova normalità, in attesa del vaccino che porrà fine ad ogni sofferenza: mascherine e sanificazione della mani, distanziamento sociale, divieto di assembramenti e percorsi obbligatori segnati da adesivi sul pavimento sono le leggi dello stato di pandemia. Nonostante la loro deliberazione, il contagio spadroneggia lo stesso negli ambienti a maggiore densità di presenza: sono le città, le aree metropolitane ad essere i luoghi più a rischio in questa situazione di precaria socialità. Il problema che si pone riguarda il rapporto tra l’uomo e lo Stato e il ruolo di mediazione che le leggi da sole sembrano non riuscire più a svolgere, perché la difficoltà nell’assicurare la loro attuazione è inversamente proporzionale alla tolleranza che si può mostrare verso chi non le rispetta. Il contagio virale pervade tutti gli ingranaggi della costellazione delle nostre interazioni, ha logiche di diffusione che trascendono gli obblighi burocratici, ma soprattutto è in grado di attaccare la società direttamente alle sue fondamenta, nella pace e nella coesione che le permette di esistere.
Il ritorno alla vita sociale dopo la pausa imposta del lockdown è avvenuto dappertutto sotto il segno di un’analisi costi-benefici che teneva da una parte le ragioni della salute pubblica, considerando dall’altra le ragioni dell’economia. Un’economia di guerra, in cui diventa per la prima volta, dalla tragedia della Seconda guerra mondiale ad oggi, per noi che viviamo l’Occidente pacificato, necessario razionare le risorse da destinare a ciascun ambito. La riflessione sottesa a questo trade-off è semplice e chiara: non si può vivere senza lavorare e non si può lavorare senza vivere. Obiettivo primario di qualsiasi governo è stato quello di difendere la salute dei propri cittadini, di garantire la loro sicurezza. Possiamo pensare che questa sia stata una decisione scontata, di essere fortunati che i nostri governanti abbiano compiuto una scelta etica più lungimirante di altri, ma la storia al contrario ci mostra la necessità di questa scelta, figlia di una riflessione che partì in Europa più di quattro secoli fa, quando il Vecchio continente si misurò con una catastrofe di dimensioni sociali analoghe a quella che viviamo tuttora: quella rappresentata delle guerre di religione.
L’emergere di una borghesia alla ricerca di spazi di espressione in un continente spiritualmente – e temporalmente – dominato da un papato avido di potere e corrotto fino al midollo, provocò la frantumazione dell’unità religiosa europea nei molteplici focolai di rivolta al cattolicesimo romano, detti appunto protestanti. Lo Stato moderno nasce allora per garantire la sicurezza ad una società dilaniata dalle sue lotte intestine. Uno dei maggiori pensatori che si misurò con queste difficoltà fu il filosofo inglese Thomas Hobbes pone al centro della sua riflessione la necessità di pacificazione della società, tracciando una grande dicotomia tra stato di natura e stato civile: il primo è il teatro di un’umanità allo stato brado, in perenne lotta degli uni contro gli altri per la propria affermazione e sopravvivenza, caratterizzato da una precarietà totale dei patti, delle alleanze, delle leggi; nello stato civile invece gli uomini compiono il sacrificio di alienare i propri diritti per costruire la macchina del Leviatano, lo Stato che concentra su di sé tutto il potere promettendo pace e sicurezza. Lo Stato nasce allora come la macchina in grado di dirimere le controversie, le discordie e finalizzata a permettere lo sviluppo della società.
“La causa finale, il fine o il disegno degli uomini […] nell’introdurre quella restrizione su loro stessi (in cui li vediamo vivere negli stati) è la previsione di ottenere con quel mezzo la propria preservazione e una vita più soddisfacente […].”
Thomas Hobbes, Leviatano, II, XVII
La riflessione del tempo è dominata da questa necessità di trovare un quadro normativo che permetta di superare le faide e le discordie che si erano sedimentate tra gli uomini ed arriverà al punto di teorizzare la sicurezza come punto di partenza imprescindibile della vita sociale, senza la quale non è possibile sviluppo alcuno delle forze economiche e produttive. Al tempo sono i nativi americani l’esempio che mostrerebbe la realtà dello stato di natura: basandosi sulle etnografie compilate dai primi esploratori del Nuovo mondo, questi filosofi ritengono che la mancanza presso queste popolazioni di un potere politico stabile su modello delle monarchie europee sia la causa della barbarie in cui versano i cosiddetti “selvaggi”. La storia dimostrerà poi che questa descrizione non corrispondeva al vero, che non vivevano allo stato di natura e che anche presso di loro esisteva un potere politico, ma che era connotato diversamente dal nostro. Questo dibattito ci mostra che il rischio del collasso della società era percepito come drammaticamente reale alla mancanza dei presupposti che la pongono in essere, ma soprattutto ci riporta alla scottante attualità se consideriamo come si sia cercato di contrastare la diffusione a macchia d’olio del contagio con interventi esecutivi mirati alla tutela della salute pubblica.
Il suddetto trade-off tra economia e salute pubblica sul quale si muove la politica ai giorni nostri, impone che ogni volta che si opera una scelta una delle due bilance debba pendere di più rispetto all’altra: detto in altri termini, il rischio pandemico impone un aut aut tra economia e salute pubblica in cui è difficile bilanciare le due ragioni. Le timide misure intraprese in questa seconda ondata non sembrano essere state necessarie a scongiurare la diffusione di un certo senso di fatalismo e incertezza tra chi varca il proprio ufficio per andare al lavoro o chi utilizza quotidianamente i mezzi pubblici. Il non detto quando si parla di convivenza con il virus è l’accettazione passiva del rischio biologico, del rischio della morte per determinate categorie di persone, della necessità di modificare il proprio stile di vita ed i rapporti economici su cui si basa il nostro vivere comune. Dalla nascita dello Stato moderno ad oggi, l’imperativo è stato quello di minimizzare il più possibile i rischi: lo Stato come istituzione nasce per minimizzare il rischio della morte, nel secolo scorso si trasformerà in Stato sociale per minimizzare il rischio della povertà. Ma quello che viene troppo spesso dato per scontato sono le fondamenta del benessere di cui godiamo, saldamente ancorate alla sicurezza di cui la società ha potuto godere nei suoi periodi di più ampio sviluppo tecnologico. Cosa succede quando uno Stato non è più in grado di proteggere i propri cittadini? Alla porta c’è quello che i filosofi del Seicento pensavano di trovare in America: l’insicurezza, la diffidenza, la guerra di tutti contro tutti, lo stato di natura.
“In tale condizione non c’è posto per l’industria, perché il frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza, né conoscenza della faccia della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve.”
Thomas Hobbes, Leviatano, I, XIII
Lo sgretolamento del tessuto sociale è un danno collaterale che significherebbe un deciso cambio della traiettoria in direzione del collasso. Il pensiero politico europeo del Seicento ci insegna come questa possibilità possa farsi tremendamente reale agli occhi della ragione. Per scongiurarla, oggi lo Stato cerca di rispondere con un bizantinismo normativo, cercando di normare aspetti della vita quotidiana che rientrano nell’ambito della consuetudine, ma con scarsi risultati perché la legge non è mai valida in se stessa, ma in virtù della sua attuazione: alla mancanza di questa restano solo parole vuote, prescrizioni, consigli. La prima pandemia del XXI secolo ci dovrà riportare dunque coi piedi per terra, a ragionare sulle fondamenta del nostro vivere quotidiano. Di fronte a questo quadro a tinte fosche, lo Stato ha due possibilità: fare di tutto per bloccare il contagio o accelerare verso il collasso.
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