Filosofia

L’invidia: un’imperfezione orrenda

29 Gennaio 2019

L’INVIDIA: UN’IMPERFEZIONE ORRENDA

Caino che uccide Abele. Con i due fratelli nascono i sentimenti dell’invidia e della gelosia.
Caino è il primo figlio della prima donna e del primo uomo. Egli rivela la prima nascita, il primo parto nel dolore. A Caino Adamo dà la terra, ad Abele le greggi.
I due fratelli sono, pertanto, complementari. Eva preferisce Caino e Adamo Abele e ciascuno vorrebbe essere il preferito di Dio. Caino offre a lui i prodotti del suolo, Abele i primogeniti del suo gregge.
Non si sa come e perché ma Dio preferirebbe i prodotti di Abele. Lì nasce la gelosia e l’invidia di Caino per il fratello. Caino reagisce con la violenza che esplode dalla gelosia per il bene altrui. Il demone dell’odio e dell’invidia ha ormai prevalso.

L’invidia come tutti i sentimenti umani esprime una relazione o comunque un tentativo di relazione. Riguarda almeno due soggetti, colui che invidia e colui che è invidiato.
Si può provare invidia per uno sconosciuto che mostra un abito più bello, per qualcuno di più affascinante, un qualsiasi attributo di desiderabilità che fa scattare in noi, appunto, la reazione dell’invidia. Si può essere invidiosi di qualcuno che non si è mai visto, ma di cui si è sentito parlare in termini un po’ troppo elogiativi, troppo, chiaramente, per i nostri gusti, cioè nel senso che quelle esaltazioni ci sembrano eccessive e immeritate e ci par quasi che tolgano a noi quanto ci sarebbe, invece, dovuto.
L’invidioso però non si sente nei panni di un aggressore, ma di un aggredito; non percepisce se stesso come colui che attacca, ma come colui che si difende, anzi, che è costretto a difendersi, giustamente e legittimamente, che si difende da una vera e propria provocazione. L’altro lo provoca, ostentando i propri meriti e il proprio successo, e lui reagisce, per legittima e sacrosanta difesa, per istinto di conservazione.
L’invidia è un sentimento che stravolge la capacità di giudizio, è una passione primordiale e, di conseguenza, l’invidioso è appunto simile ad un allucinato: difficilmente riesce a cogliere la differenza tra ciò che esiste realmente e ciò che è frutto di una sua percezione distorta e aberrante.
Pertanto, l’invidiato può essere realmente una persona che ostenta il proprio valore e i propri meriti, che siano essi veri o presunti, ma, nel momento in cui essi gli vengono riconosciuti, a torto o a ragione, da un certo pubblico, ecco che scatta il pungiglione dell’invidia nell’anima di quanti si sentono offesi e sminuiti da quel riconoscimento. Non si invidia colui che, pur vantandosi e ostentando, non ottiene alcun riconoscimento: si prova invidia per colui che è oggetto dell’altrui ammirazione.
La riuscita degli altri è l’eclissi e la riduzione della nostra luminosità, un qualcosa che ci fa appannare, che ci emargina e allora ecco nascere l’invidia.

Una famosa figura in letteratura che personifica l’invidia è Iago nell’opera shakespeariana “Otello”. Iago è un personaggio che trama all’ombra spargendo calunnie, addirittura scatenando la furia omicida di Otello che uccise la moglie Desdemona. Iago cerca e brama delle cause per tutto questo odio, aggrappandosi anche a delle voci di corridoio, che potrebbero non avere fondamento, solo per avere un motivo per far del male ad Otello e agli altri.Iago è quello che riesce a rovesciare la realtà, trasformando la verità in falsità, l’innocenza in colpevolezza, presentandosi proprio lui, l’essenza stessa della malvagità, dell’invidia, come un campione di bontà agli occhi del credulone Otello.

L’invidia ha attraversato tutti i tempi e i luoghi, ancora in letteratura dove un’altra figura accecata da invidia è Javert, antagonista di Jean Valjean ne “I miserabili” celebre opera di Victor Hugo, pubblicata nel 1962. In Javert, a prima vista, la spasmodica rincorsa e l’accerchiamento di Jean Valjean potrebbero essere confusi con altre urgenti tensioni, quali il senso di impotenza, l’uso intollerante del potere, l’inaccettabilità della sconfitta — quindi con la superbia —; in realtà essi altro non nascondono, se non un’incontenibile invidia per un uomo in tutto superiore a lui, nel bene e nel male.

L’invidia è stata personificata anche in pittura. Giotto dipinge l’invidia nella Cappella degli Scrovegni a Padova raffigurandola come una donna avida che tiene stretti a sé i propri averi mentre brucia del suo stesso male. Una serpe le esce dalla maldicente bocca per entrare nei suoi occhi ed avvelenare così con lo sguardo.

Negli scritti sull’invidia di Nietzsche, anche Lui sottolinea come questo sentimento sia un errore della conoscenza e della natura che conduce l’individuo lontano dalla vera felicità: «Agli invidiosi la felicità e l’onore appaiono sotto l’involucro esteriore della ricchezza e dello splendore, dell’acclamazione pubblica e delle lodi dei giornali…essi non riescono a vedere il cuore delle cose». Sono le prime intuizioni degli aforismi che nei testi più noti sulla genesi dei valori e dei controvalori etici (Geneaologia della moralee Al di là del bene e del male) indurranno il filosofo di Zarathustra a condannare l’«uomo del risentimento», ad additare la «morale degli schiavi» come causa prima della decadenza dei valori europei e ad auspicare il superamento del nichilismo attraverso la “felicità” dell’oltre-uomo.

Era invidia o superbia quella che mosse Lucifero a ribellarsi a Dio? A ben vedere è invidioso colui che non può insuperbirsi a causa dell’eccellenza delle qualità altrui, o per i beni che vorrebbe invano possedere. Chi è convinto della propria eccellenza, a torto o a ragione, non si macchia, di solito, del peccato di invidia. Ma poiché la superbia presuppone implicitamente un concetto di relatività (io sono più ricco di te, ho più potere, appartengo a una razza o a una classe migliore della tua…), è quasi inevitabile che i vizi della superbia e dell’invidia convivano prima o poi nello stesso individuo. Infatti, la convinzione di essere migliore di qualcuno o superiore a qualcosa — identificativa del vizio della superbia — spesso conduce al confronto-scontro con ciò che ci appare ancora superiore, e, di conseguenza, l’autoconvincimento dell’eccellenza dei propri attributi è destinato a sfaldarsi in un sentimento di invidia bruciante e impotente. Detto questo, in letteratura il superbo ha spesso connotati luciferini proprio perché l’ultimo ostacolo al perfetto innalzamento di sé è la divinità. Come non pensare alle parole che Milton mette in bocca al Demonio ne Il Paradiso perduto: «Meglio regnare all’inferno che servire in paradiso»?

Monica Pagano

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