Filosofia

L’insensatezza del sovranismo

30 Ottobre 2019

Sovranismo è una parola di successo che implica però grande confusione tra le schiere dei sovranisti stessi. In uno spettro personalizzato possiamo trovare almeno quattro categorie un po’ sfumate di sovranisti. Il sovranismo di destra, che possiamo derubricare come nazionalismo. Poi troviamo i seguaci di Preve o De Benoit, i più eclettici e i più rossobruni. Poi abbiamo effettivamente dei sovranisti di sinistra, cioè anticapitalisti in senso marxista, con quelli più accademici che si appellano all’identità di uno Stato forte rifiutando il nazionalismo, arrivando a un’accezione di sovranismo vicina all’indipendentismo. Infine abbiamo quelli stalinisti, più opportunistici o macchietta. Questo termine così eclettico e anche spesso usato a sproposito o con leggerezza dai quotidiani si offre, come dicevamo, a teorici del superamento delle categorie di sinistra e destra, fino a solide rivendicazioni di appartenere a sinistra o essere comunisti, come anche all’estrema destra fascista. L’eterogeneità del gruppo se confonde gli appartenenti, figuriamoci lo sconcerto che diffonde tra noi esterni. D’altronde non sono nuove a sinistra le vocazioni patriottiche dal “Patria o muerte” di Che Guevara, ma anche la fondazione del mito e del sovrano assoluto Stalin, Zar nella Russia sovietica.

Non soffermiamoci a criticare l’operazione di marketing dell’estrema destra di Salvini e Meloni che rietichettano il nazionalismo in sovranismo reazionario, perché essere sovranisti va di moda e perché richiami nazionalistici offrirebbero il fianco alle comunque fondate accuse di fascismo. Non è però un caso che il termine sia rivendicato anche dagli stalinisti di Marco Rizzo, che appunto si inseriscono con opportunismo nel solco del successo della parola, e delle tematiche annesse. Fa sorridere questa posizione se la confrontiamo con le parole dell’uomo d’acciaio:

Talvolta la borghesia riesce ad attirare il proletariato nel movimento nazionale, ed allora la lotta nazionale assume, esteriormente, un carattere «popolare», ma solo esteriormente. Nella sua essenza, la lotta resta sempre borghese, vantaggiosa e utile soprattutto per la borghesia”.  Iosif Stalin

Pare dunque antico il dibattito tra i marxisti sul confronto tra la caratterizzazione nazionale e la centrifuga entropica del capitalismo che disgrega la comunità. Erano tempi politicamente lontani ma filosoficamente vicini. Quali aspetti apporta dunque la sovranità nazionale al dibattito odierno?

“Lo Stato nazione democratico è di gran lunga la più efficace forma istituzionale mai inventata a sostegno dell’egalitarismo e a tutela dei più deboli” A. Zhok

Possiamo notare una cesura teorica tra due visioni del socialismo nazionale, alla ricerca di quale debba essere la risposta antitetica corretta al capitalismo. Questo presuppone una interpretazione di quello che sia il limite e il carattere universale della dialettica materiale nel capitalismo, cioè il campo di possibilità. Qua abbiamo una parte che sostiene uno Sato forte democratico, e su quanto sia democratico si dovrebbe dibattere, e dall’altra la più semplice visione di coesione nazionale. È in questo secondo caso che possiamo trovare gli aspetti critici che già la Luxemburg ravvisò tra una sollevazione o una caratterizzazione post-rivoluzionaria nazionalistica, come avvenne in URSS, rispetto alla categoria di classe lavoratrice, che implica un carattere internazionale. Se non basta effettivamente il richiamo al dibattito dell’inizio del ‘900 si potrebbe far notare come Internazionale è l’inno marxista e che la Lega dei giusti, poi Lega dei comunisti che Marx ed Engels contribuirono a formare era transazionale. Nonché per fugare ogni dubbio il più famoso motto della sinistra (parola ambigua ma usata qua scientemente) è tutt’ora “Lavoratori di tutti i Paesi unitevi”.

Per rispondere alla critica che mi sto soffermando su un’analisi delle contingenze, è il caso allora di far notare che l’aleatorietà dei fatti è tale allora come oggi, non per questo manca la “rosa nella croce del presente” cioè la possibilità di analisi razionale. Si potrebbe forse teorizzare un ritorno limitato del sovranismo di sinistra in primis per sviluppo identitario della comunità nello Stato, che non è mera accidentalità, in opposizione alla disgregazione mondiale dell’individualismo; e per secondo il fatto che può essere un appello generato dallo spazio nel dibattito politico, ossia un poco di opportunismo e della sana disperazione propagandistica di fronte agli sviluppi del capitalismo. Ma questo sgomento, di cui sicuramente è scevro il dibattito accademico, non giustifica la scarsa considerazione per il seguente argomento che è mortale per il sovranismo: se effettivamente dobbiamo entrare nel dibattito considerando gli universali, e lo Stato è letto come campo di possibilità, ciò che invece sarebbe da considerare è lo sviluppo dell’oppressione globale del capitalismo. Se consideriamo il mondo coinvolto universalmente  in quelle che sono le atroci e tipiche problematiche del capitale, che non sto qua a sciorinare, va già di per sé che ogni posizione antitetica ad esso non può che svilupparsi per la dialettica stessa, dal basso e nel campo delle possibilità del mondo intero.

Questo implicitamente inchioda ogni pretesa sovranista perché da un lato rende inutile il richiamo a qualsiasi unità popolare, che di fatto si realizza perché la nazione ricomprende l’individuo come già membro della stessa. Per questo motivo è già implicito che qualsiasi sollevazione risulta nella unica possibilità di sollevazione del contiguo. Cioè possiamo sì guardare le pretese di un richiamo alla coesione comunitaria nello Stato, presunto democratico, come risposta  idealistica naturale all’atomismo individualista del mondo capitalistico-meritocratico, oggigiorno esasperato rispetto alle già note testimonianze tocquevilliane degli anni ’30 dell’800. Ma la possibilità comunitaria è necessità superflua, perché anzitutto si inserisce nel lascito della nazione e per questo l’appartenenza nazionale è già presente in qualsiasi sollevazione anticapitalista possibile (come empiricamente possiamo constatare in Cile come in Catalogna). La rivolta in sé e per sé non può che coinvolgere chi può coinvolgere, quasi banalmente, e quindi riguardare chi è tra loro compatriota. Cioè i lavoratori delle nazioni in fase di sublimazione sono lavoratori sì del mondo globalizzato ma viceversa sono comunque italiani, catalani, cileni, etc. o sarebbe meglio dire lavorano come e con italiani, catalani e cileni, e quindi sono nel contiguo e si rivoltano per il riconoscimento delle condizioni di oppressione del simile, nel contiguo stesso. Se effettivamente ogni valore è morto con Dio, non può che morire anche il valore della nazionalità, e non per mero postmodernismo, ma per caratteristiche dialettiche materiali che potremmo dire icasticamente portano alla sollevazione di tutti i lavoratori uniti, nei Paesi e tra i Paesi. Come era già chiaro a Marx ed Engels nel Manifesto, senza nessun appello irenico al cosmopolitismo.

Addentriamoci ora nella confutazione più lineare del sovranismo idealistico, che si configura in un’instabile forma, aleggiante come nebbia nella zona rossobruna. Le problematiche di queste teoria sono tre: disattenzione alle dinamiche di classe, astrazione idealizzata dello Stato, confusione dei fatti che definiscono le istituzioni. “Idee di sinistra e valori di destra” è uno dei motti, e in principio si può notare come ci sia un’astrazione di ciò che significa comunità statuale. Si possono riprendere le ottocentesche citazioni inorridite dei De Maistre o De Lamennais, difensori dell’Ancien régime, di fronte al carattere individualistico apportato dalla comunità democratica post-rivoluzionaria, sovrapporle ai commenti dei vari Fusaro e notare una sorprendente somiglianza. Per loro lo Stato è Stato ed è coesione comunitaria, manca solo un pizzico di monarchismo per farli diventare sostenitori del Re Sole; qua si vede la scarsa attenzione a ciò che è, nel processo storico, la burocrazia o l’istituzione. Lo Stato in realtà si sviluppa con la comunità che comprende economia e famiglie, e oggi è la comunità capitalista che si dà nel reale nel cosiddetto Stato minimo; il quale difende, veicola e approva ideologicamente il capitalismo nelle sue istituzioni burocratiche. Se non per astrazione può essere auspicato uno Stato forte, calato dall’alto. Per di più fossilizzarsi su un conservatorismo dei valori non solo non discerne la bontà di un certo tipo di progresso, ma lo contrasta. Così come il richiamo all’identità nazionale sfocia nel patriottismo e maschera la lettura classista della società. Come se un ritorno allo Stato sovrano sistemasse il rapporto tra oppressori ed oppressi, lavoratori e padroni.

Ragionando con la comunità reale, se effettivamente lo Stato tornasse forte non potrebbe che esplicare l’ideologia che è dominante nella comunità stessa, ovvero il liberismo a carattere nazionale, che è largamente approvato dai Chicago Boys. Quindi l’astrazione è credere che il senso di comunità per una qualche magia rivolti i rapporti di produzione, soprattutto se ad esso si aggiunge una difesa dei valori tradizionali che sono espressione sovrastrutturale della classe borghese. Analizzando marxianamente la loro posizione, in quanto anche loro hanno pretesa di lettura marxiana, vediamo come la lotta tra la sovrastruttura internazionale globalizzata e atomistica sia opposta alla sovrastruttura Stato, in cui comunque i rapporti rimangono di “dittatura borghese”. I sovranisti rossobruni è come se volessero scegliere Pompeo per la difesa della Repubblica, contro Cesare che vuole l’Impero, non considerando che le masse plebee e schiave rimangono sottomesse sia con l’uno che con l’altro. Cioè guardano alla dialettica sovrastrutturale di un capitalismo nazionale contro uno mondialistico, anziché all’antitesi tra le forze produttive, cioè al rapporto tra classi che si realizza nello Stato stesso. Difendere lo Stato significa difendere la sua ideologia dominante, liberista e borghese, e quindi difendere i rapporti materiali che vedono questa oligarchia dominare gli oppressi.

 

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