Filosofia
L’epoca del disincanto della Rete
Tra 18 e 13 mila anni fa, nelle grotte di Altamira in Spagna, e in quelle della Patagonia in Argentina, i ragazzini delle tribù locali hanno tracciato sulle pareti di roccia un’impronta della loro identità, un segno che l’avrebbe resa immortale fino ai nostri giorni. Le caverne hanno conservato la raffigurazione delle loro mani, ottenuta appoggiando la sinistra sulla pietra e spruzzando con la destra una vernice di origine minerale, per lo più rossa o nera. Forse questi ritratti sono stati realizzati nel corso dei riti di passaggio dall’infanzia all’età adulta; forse, il calco della mano richiama il legame magico che si stabilisce tra l’orma e l’animale durante la caccia. Per questo le sagome appaiono vicino ai dipinti che illustrano scene venatorie, in cui le belve del paesaggio circostante vengono accerchiate e uccise. I cacciatori dell’antichità sapevano che la preda può essere catturata solo quando è pronta: ce lo insegna Calasso nei suoi ultimi libri. L’impronta che guida l’agguato verso l’animale, è la chiamata che avverte il cacciatore del momento propizio.
Le tecniche della comunicazione hanno fatto molta strada dai tempi di Altamira e della Patagonia: ma la loro configurazione sociale, la caccia ad un’informazione che si veicola attraverso dati iconici, l’affermazione dell’individualità dell’autore nel gruppo – e anche una qualche fede nel potere magico del gesto di scrittura – non sono granché cambiati da allora. Lo sottolinea il bel libro di Paolo Artuso e Maurizio Codogno, Scimmie digitali, da poco pubblicato da Armando Editore. L’armatura di razionalità cui gli uomini possono ricorrere dal Paleolitico nel frattempo non è mutata, e si manifesta con gli stessi caratteri nelle mani dipinte sul fondo delle caverne, nella creatività delle pagine dei blog, nei post sui social media. Il modello che descrive il processo di cognizione permane identico nel corso dei millenni: l’acronimo DIKW lo riassume scandendone le fasi essenziali, dalla raccolta dei dati, all’estrazione dell’informazione, alla composizione di un patrimonio di sapere – fino alla meta finale, che coincide con la saggezza. I cacciatori sapevano dedurre le istruzioni utili per scovare e razziare gli animali selvatici senza dover attendere i Big Data. E viceversa, la disponibilità dei dispositivi informatici non ha abraso dal nostro cervello le stesse facoltà di intuizione e di induzione, che permettono di braccare la verità e la finzione attraverso le notizie che corrono sul Web, e che affaticano attenzione e concentrazione.
Oltre al merito che bisogna tributare al talento divulgativo sulla logica di Internet (e dei social media in particolare), l’esposizione di Artuso e Codogno vanta altre due virtù. Pur tenendo fede alla vocazione di saggio introduttivo sulle tecnologie dell’informazione online, il loro lavoro fa giustizia di due tendenze molto diffuse nella letteratura sui cosiddetti new media digitali (che sono new ormai da più di vent’anni). La prima è quella del messianesimo della Rete, che in forza della sua stessa struttura sarebbe in grado di implementare una rivoluzione progressista, in tutti i settori della convivenza umana: la crescita della democrazia diretta, la soluzione di tutti i problemi attraverso gli algoritmi, il miglioramento dei servizi di welfare attraverso le macchine e i robot, la creazione di un’intelligenza collettiva capace di abbracciare il pianeta intero, e di sviluppare le potenzialità di ciascun individuo. La seconda è quella del pessimismo economico e cognitivo, secondo il quale la diffusione dei computer e l’espansione della loro potenza di calcolo condurrà a due conseguenze fatali: la sostituzione dei lavoratori umani con equivalenti in silicio, con la propagazione di uno stato di disoccupazione generalizzata; la riduzione delle facoltà intellettuali degli individui, l’abdicazione alla responsabilità morale, la devoluzione di comprensione e volontà all’hardware e al software di Internet. Entrambe le tendenze ritengono che le nuove mani che abbiamo creato (non più sui fondali delle grotte, ma nelle server farm e nei processori di computer e cellulari), si sostituiranno inevitabilmente alle nostre, e diventeranno le protagoniste della storia del prossimo futuro.
La diffusione delle fake news e lo scandalo di Cambridge Analytica alimentano qualche sospetto sull’ineluttabilità del percorso storico intrapreso dalla tecnologia digitale; o per lo meno stimolano una revisione critica del loro rapporto con la diffusione della democrazia, o con la sua intensificazione attraverso processi di sostituzione della rappresentatività con un suffragio diretto su qualunque argomento. Allo stesso tempo però, la protezione che gli individui possono opporre alla circolazione delle bufale, e alla circonvenzione della propaganda elettorale, è la stessa di sempre: l’esercizio dello spirito critico, la ricerca di più fonti indipendenti di informazioni, l’approfondimento dello studio. L’unica professione di fede che viene avanzata da Artuso e Codogno è quella nella laicità della ricerca, e nella forza inalterabile delle risorse cognitive che permettono di applicarla.
Internet non ci rende di per sé più virtuosi e più liberi, ma nemmeno più stupidi: la minaccia formulata da Nicholas Carr è scongiurata dalla plasticità dell’ontogenesi del cervello – e dalla constatazione che i meccanismi di apprendimento, insieme ai contesti in cui vengono messi alla prova, non sono cambiati di molto dalla giungla primitiva a quella delle pagine web e delle notizie che le percorrono. Anzi, la letteratura economica degli ultimi anni, in seguito allo studio monumentale di Robert Gordon The Rise and Fall of American Growth, tende a sottolineare come l’impatto della terza rivoluzione industriale (quella digitale) sul tasso di produttività sia fin troppo ridotto. Nick Srnicek e Alex Williams, in Inventing The Future, giungono addirittura a sostenere la necessità di un movimento popolare che invochi l’accelerazione dei programmi di rimpiazzamento degli operai in carne ed ossa con i robot.
La seconda rivoluzione industriale, quella che ha colonizzato il mondo occidentale tra il 1920 e il 1970, ha trasformato la vita di tutti, quasi senza distinzioni di ceto e di origine, con l’introduzione degli apparecchi elettrici e quelli a combustione interna nella vita quotidiana. Il numero di ore di lavoro è diminuito, la produttività è cresciuta come mai era accaduto dai tempi dell’Impero Romano, e le case di tutti sono uscite dall’isolamento per entarre nella rete urbana – innervandosi di tubi per la conduttura dell’acqua, del gas, dell’elettricità, popolandosi di frigoriferi, termosifoni, condizionatori, televisori, radio, giradischi. Nonostante il ritmo dell’innovazione tecnologica di stampo informatico, dopo il 1972 il tasso di crescita della produttività è crollato sotto i livelli del 1920, mentre la diseguaglianza sociale ha continuato a crescere – tornando a separare lo stile di vita di chi ha tantissimo da quello di chi ha sempre meno. E il rallentamento del tasso di produttività promette età pensionabili sempre più lontane, ore di lavoro e tasse in aumento, servizi pubblici sempre più scadenti. Come sentenzia Peter Thiel, fondatore di PayPal e tra i primi finanziatori di Facebook, «volevamo macchine volanti, invece abbiamo ottenuto 140 caratteri».
Qualcosa non ha funzionato nella magia delle mani digitali, spezzando il legame tra le promesse e i risultati della grande spinta progressista (o della grande minaccia) della Rete. Se dobbiamo dare la caccia alla ragione di questa disillusione, vale la pena di prendere le mosse dalla lucidità laica che Artuso e Codogno ci propongono di frequentare ogni volta che ci accingiamo a pensare a Internet, o anche solo ad usarlo.
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