Filosofia

Le vie dell’errore: presupporre ciò che sarebbe da dimostrare

13 Gennaio 2015

È possibile argomentare concentrandosi sul proprio interlocutore in quanto persona piuttosto che sull’argomentazione che questi adduce, sia mettendo in dubbio la sua neutralità o competenza sia sminuendone l’autorità sia facendo riferimento ai presupposti dei suoi stessi argomenti per confutarlo (in senso lato, utilizzando degli argomenti ad hominem).

Quando una tesi viene sostenuta utilizzando come punto di partenza qualcosa che l’interlocutore ritiene si debba dimostrare mentre chi avanza una tesi ritiene dimostrato, chi avanza la tesi commette una fallacia di petitio principii (petizione di principio) o circulus in probando (dimostrazione circolare). L’errore consiste qui  nel postulare, nell’assumere (dandola per scontata) la verità di ciò che è da dimostrare proprio mentre si tenta di dimostrarlo.

Può sembrare una mossa sciocca, ma solo se lo si fa in modo esplicito, se le premesse dell’argomento  sono espresse in modo ingenuo; al contrario, se la conclusione è celata in modo efficace in una delle premesse assunte (magari perché vaghe), allora solo se la si scopre essa diventa inefficace e facilmente attaccabile.

Così Hume individuava (nel suo Treatise on Human Nature) una fallacia di questo tipo nell’argomentazione di chi vuole dimostrare che le inferenze induttive sono valide sulla base della premessa che le leggi di natura opereranno domani come operano oggi, presupponendo cioè una sorta di regolarità o uniformità nella natura stessa (eventi simili del passato che sono l’effetto di cause simili saranno effetto di tali cause anche nel futuro). Ma su quale base possiamo provare tale uniformità della natura? Se dicessimo che, poiché così è stato nel passato, così sarà anche nel futuro, presupporremmo esattamente ciò che è da dimostrare.

La petitio principii non concerne tanto la verità formale (in tal caso sarebbe persino valida, come la frase io solo colui che sono), bensì  l’adesione degli interlocutori alle premesse poste. Se così è, allora siamo all’interno di una mossa retorica, strategica, che consiste in una violazione del Galateo, cioè, nell’utilizzo di un argomento proprio quando esso è inutilizzabile (viene così “contrabbandato”, e suppone che il nostro interlocutore aderisca a una tesi che invece vorremmo fargli ammettere).

 

Pensiamo a un avvocato che, per esempio, per difendere il suo cliente dica: L’imputato merità pietà, non un castigo: si punisce chi è colpevole, bisogna invece provare compassione per chi rischia di essere condannato ingiustamente (esempio di Perelman, Olbrecht-Tyteca 1966).

 

L’argomentazione dell’avvocato sottintende che l’imputato sia accusato ingiustamente, cosa che l’uditorio (il giudice o la giuria) non può accettare, altrimenti o il processo è da ritenersi concluso o non dovrebbe nemmeno iniziare. La strategia addotta dall’avvocato, dunque, consiste nel presentare la questione come già decisa in favore dell’accusato.

 

La petitio principii può venire utilizzata per rendere impossibile una discussione, per esempio dicendo (con un appello all’opinione del popolo): «Il 73,6% degli italiani sono con me. Possibile che tutti si sbaglino?» (esempio di Cattani 2001) oppure (unita in questo secondo caso a un argomento ad hominem per soffocare sul nascere la discussione: «È superfluo dimostrare la follia della tesi opposta» (idem). In questo senso è una violazione delle condizioni necessarie della discussione.

D’altro lato, anche l’accusa di petitio principii serve per impedire a qualcuno di esprimere la sua tesi, come emerge chiaramente dal consiglio fraudolento di Schopenhauer: «Se l’avversario ci chiede di ammettere una cosa da cui il problema in discussione conseguirebbe immediatamente, rigettiamola spacciandola per una petitio principii; infatti non sarà difficile che sia lui sia chi ascolta considerino identica al problema una tesi strettamente affine; e così gli sottraiamo il suo argomento migliore» (Schopenhauer 1991).

 In definitiva, è utile se siamo in grado di individuarla, lo è di meno se pretendiamo di usarla per ottenere apparentemente ragione (senza però risolvere davvero una disputa nel merito della questione).

Come replicare a una petitio principii?

 1) Se vogliamo individuare la fallacia di petitio principii occorre cercare una premessa che viene spacciata come se fosse già accettata (sia essa implicita o esplicita).

2) La replica consisterà nel chiedere di provare ciò che è presupposto, a meno che noi non siamo d’accordo, ma in tal caso l’oggetto della disputa sarebbe un altro.

3) D’altro lato, se siamo noi a essere accusati di aver commesso tale fallacia, è sempre possibile sottrarsi all’accusa negando che tra la premessa concessa e la conclusione non vi sia alcuna differenza. Il principio e la conclusione non sono mai esattamente le stesse, perciò può nascere una discussione riguardo il fondamento dell’accusa.

4) E si potrebbe anche supporre che la premessa che viene contestata abbia eventuali altri fondamenti diversi dalla conclusione che se ne è voluta ricavare e che sembrerebbe costituire un anello indispensabile nella catena del ragionamento.
 

Riferimenti

Adelino Cattani, Botta e risposta, Il Mulino, Bologna 2001.

Chaïm Perelman, Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, Torino 1966.

Arthur Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi, Adelphi, Milano 1991.

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