Costume

Le fiabe che non ci raccontiamo più

10 Giugno 2022

Caro Cigno Nero,
mi è capitato giorni fa di passare una serata da amici. Dopo cena i bambini si sono messi a letto a guardare la tv. Prima di andarmene sono entrato a salutarli: “Tolgo il disturbo, così potranno venire a raccontarvi una storia”. Dalla loro reazione ho capito quanto questa abitudine sia diventata desueta. Non avendo figli non avevo mai riflettuto su questo aspetto, ma le mie indagini successive mi hanno confermato che raccontare favole non è attuale. C’è chi delega allo schermo di turno, chi invece è grande sostenitore della lettura e compra libri anche bellissimi, ma le fiabe classiche, quelle no, non si usano più. Da una parte lo capisco, perché  ricordo perfettamente la suspance che mi attanagliava e mi faceva tremare, perché parecchie di quelle trame avevano qualcosa di veramente crudele. Eppure io sono cresciuto con le trame delle fiabe che mi raccontava mia nonna. Questo cambio di rotta attuale forse è dovuto alla voglia  di proteggere i bambini dalla paura, dai lati troppo oscuri e spaventosi della vita? Può essere che mi sbagli, ma mi pare che i giovani di oggi siano molto più fragili. Personalmente credo che si stia perdendo un patrimonio importante. Certo, concordo con chi in questi giorni mi ha fatto notare che erano storie sessiste, ma c’è qualcosa di misterioso che le rendeva e le rende ancora davvero belle. Di cosa si tratta esattamente?
   PP

Caro PP,
sollevi un tema che è saturo di affettività, perché parlare di fiabe ci rispedisce immediatamente alla nostra infanzia, facendoci assaporare quel gusto verace e antico che ci portava in un mondo altro.
Stava qui, forse, in questa capacità di portarci altrove, la magia delle fiabe. La trama, cui più volte fai riferimento e che richiama la tessitura, quindi maglie e grovigli, ma anche vuoti e interstizi, deriva da trans-meare, cioè “passare di là”. Ma di là dove? Dove ci porta il di là della fiaba?
Probabilmente gran parte della questione gironzola proprio intorno alla soglia di questo misterioso “di là”.
Forse è vero, come scrivi, che vogliamo tenere i bambini lontani dalla paura, così, non appena li vediamo vacillare, ci affrettiamo a inserire una luce di cortesia nella presa di corrente per preservarli dal buio. Ma, come scriveva Platone, che i bambini abbiano paura è normale. Meno normale è la reazione di noi grandi, che, di fronte a quella paura, andiamo nel panico e ci affrettiamo a scacciarla con rimedi prêt-à-porter.
Si capisce, allora, perché le classiche fiabe “non si usino più”, e quelle poche che resistono siano irriconoscibili per via del lifting che hanno subìto negli ultimi decenni, in cui sono state rimodellate, edulcorate e tradite; e non per una sacrosanta istanza critica verso quel sessismo di sottofondo e figlio dei tempi in cui sono state scritte, bensì proprio per censurare la paura.
Nelle fiabe è buio pesto: ci sono orchi mangiabambini, lupi spaventosi, genitori poverissimi o cattivissimi, selve oscure, orfani, creature mostruose e perfino assassini. Eppure sapevamo sostenerle quelle trame. Una delle ragioni sta  nell’oralità che esse esigevano e che nessun podcast può simulare, perché la parola viva, giocata tra la bocca di chi parla e l’orecchio di chi ascolta, faceva sì che non si restasse mai da soli con l’angoscia del racconto. Anzi, il giorno dopo chiedevamo di ascoltarlo ancora, senza timore alcuno di noia, perché la medesima fiaba non si diceva mai con le stesse parole: l’accento, la pausa, la scelta di un termine altro, un’enfasi o un’esitazione, una tacca più alta o più bassa del volume, tutto diventava un diritto e un rovescio in più o in meno della tela. Ed ecco che la fiaba ogni volta ci diceva qualcosa di nuovo. Cosa esattamente?
Sappiamo della sua derivazione dagli antichi riti di iniziazione, in cui i giovani, una volta allontanati dalla tribù, venivano sottoposti a prove crudeli e durissime per poi tornare a casa sani e salvi, diversi, e soprattutto cresciuti. Con il passaggio dal mondo sacro a quello laico, l’antico rito ha lasciato di sé solo il racconto. Ma il raccontare non vale meno, tutt’altro: il linguaggio è la casa dell’essere, perché è ciò che ci rende soggetti e ci fa uscire dalla nuda vita, anche quando la parola rimane silenziosa, anche quando non sa oggettivare. La parola dice qualcosa di molto reale perfino quando assume la sua veste fiabesca di discorso non razionale, non scientifico e poco trasparente. Ad essere poco realistica, invece, è la fissità di un discorso meccanico e obbediente al solo principio di necessità. Consideriamo, ad esempio, un fatto semplice e vagamente paradossale: se la storia, quella che studiamo a scuola, che ci insegnano a tradurre in “schema” e che mai si definisce “trama”, pretende di dire la verità sui fatti e il più delle volte non la dice, la fiaba, che invece è trama, nel suo non pretendere nulla, la dice eccome.
Già, perché la fiaba “è vera”, per dirla con Calvino; “è onesta” per dirla con Bettelheim. Ed è proprio quella verità che ti “ha fatto crescere”,  la stessa che rendeva quelle storie “davvero belle”. Ma quale verità ci dice la fiaba, se ci porta “di là” col suo trans-meare?
Il “C’era una volta, in un luogo lontano lontano”, sembra infatti accompagnarci altrove, fuori di noi e fuori dal mondo. Ma è un fuori che poi si rivela, al contrario, un essere-presso le cose. Quel passato indefinito, in un posto imprecisato,  stabilisce una distanza spazio-temporale che ci consente di andare avanti nell’ascolto e nel racconto perché, se mi dice il vero, allora la fiaba trova il modo di dirmi anche la violenza e il dolore, il buio e la penombra, i divieti e le infrazioni, le scelte difficili e le loro conseguenze che si possono pietrificare nel per sempre. E perfino quel lieto fine è meno ingenuo di quanto sembri, perché, a ben vedere, a renderlo lieto non sono la salvezza o la vittoria. “E vissero felici e contenti” è sempre plurale, perché nella fiaba nessuno mai finisce per vivere felice e contento da solo. Allora, oltre alla verità sul male e sul dolore, sulla vita e sulla morte, la fiaba sa dirne un’altra, e cioè che ciò che può rendere veramente felici è tessere legami autentici con gli altri. Ed il finale è lieto pure per un’altra ragione: attraverso mille peripezie, la fiaba sostiene che donne e uomini non si nasce, lo si diventa ‒ anche se con una fatica estrema ‒, restituendo a tutti la possibilità di cambiare, la metamorfosi di una seconda nascita. La fiaba lo riesce a fare perché è elementare, complicatamente elementare. Tale semplicità permette appunto quell’essere presso le questioni, di familiarizzarci, di conoscerle e riconoscerle. Perché con gli eroi delle fiabe ci si identifica. Che sia per somiglianza o per differenza, oltre a insegnarci i destini diversi delle persone, i protagonisti fanno intrasentire qualcosa di essenziale della nostra identità.
Ecco perché avvertiamo che Cappuccetto Rosso o Pollicino parlano proprio a noi e di noi. Che cosa ci dicono?
La fiaba parla di un vuoto, di quel non sapermi, che poi sono io, e che avvertiamo spesso la sera, quando siamo fuori dal mondo diurno dei “pieni”. Ma abbiamo paura del vuoto, abbiamo paura di non sapere, come abbiamo paura della morte e di quel “di là”.  Allora evitiamo il mistero di ciò che tra me e me non (mi) dico e non (mi) ascolto, anche perché a mancarci, prima di tutto, è il tempo per dargli retta. E ci manca il tempo per raccontare una fiaba a un figlio, per frequentare insieme a lui o lei la paura.
La fiaba diventa un’occasione imperdibile perché, a farci caso, è uno dei rarissimi momenti in cui ci facciamo vuoti, per ascoltare senza interrompere, senza  intrometterci col nostro io prevaricatore.
E che dovremmo ascoltare? Che ha da dirci Sherazade di tanto importante?
Che se non avesse raccontato al principe mille fiabe sarebbe morta. Che il principe, rapito dall’ascolto, ha rinviato ogni sera la sua esecuzione, ha compreso che al mondo il tradimento esiste, che esistono anche la gelosia, la rabbia, la gioia, la spensieratezza. Che il principe, grazie alle fiabe, è stato capace di innamorarsi.
Lei vuole dire, nel modo estremo che unicamente le fiabe conoscono, che solo tessendo, attraversando coi filati i vari vuoti della mia esistenza, che solo “trans-meando” di là, mi salvo la vita di qua.

Crediamo che la fiaba non ci riguardi più. “Miopi che siamo!”, ci sbeffeggerebbe Nietzsche, “come se potessimo vivere, in una qualsiasi età, senza favola e gioco! (…) La brevità della vita dovrebbe trattenerci dal fare pedanti distinzioni di età”. Allora, potrebbe essere che censuriamo la paura dei bambini non tanto per salvaguardare loro, quanto piuttosto per proteggere noi stessi, innanzitutto dalla nostra paura di avere paura?

Irene Merlini

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