Filosofia
Per spiegare i trumpisti, le diseguaglianze sono una risposta pigra
Di fronte a quello che è stato a tutti gli effetti il primo tentativo di golpe negli USA – per quanto maldestro e cialtrone questo tentativo fosse – non è mancato chi ha letto l’accaduto come il prodotto delle diseguaglianze rampanti, traendone quindi un monito per ogni democrazia occidentale.
È il caso, ad esempio, di Fabrizio Barca, che già da subito ha commentato su Twitter su questa linea, venendo ripreso da molti, a sinistra, anche il giorno seguente.
Scene che ci fanno riflettere su estrema fragilità democrazia USA
Ma, attenzione, è un segnale per tutte le democrazie.
A quale risentimento arriva un popolo colpito da enormi disuguaglianze, che non crede più che esista un'alternativa.
E lo spazio che ciò apre all'autoritarismo https://t.co/Vvt6fk6JMX— Fabrizio Barca (@fabriziobarca) January 6, 2021
La lettura fa presa facilmente: propone un principio unico per una realtà molto complessa, è facilmente comprensibile sul piano culturale e riporta un elemento “nuovo” (un tentativo di colpo di Stato in America!) in uno schema teorico tradizionale (la reazione del popolo alle ingiustizie), rendendolo più rassicurante e domestico.
Ma la realtà è un po’ più complessa di così, e più sfaccettata di quanto la faccia Barca in suo tweet prodotto guardando gli eventi da uno schermo in un altro continente. E per notarlo non servirebbe nemmeno andarci, in America: basterebbe leggere i dati disaggregati sulle elezioni presidenziali del 2020.
È chiaro che il supporto avuto in questi anni da Donald Trump abbia anche (anche!) a che fare con le diseguaglianze, oltre che con una classe medie impoverita in molti Stati americani, ma i dati elettorali hanno dimostrato in maniera chiara come lo stipendio non sia l’unico parametro in cui si dividono gli elettori di Trump e Biden: anzi, questi mostrano come spesso all’aumentare del reddito aumentava il supporto a Trump.
Dati del genere si trovano facilmente online (si guardi questi di Statista a titolo esemplificativo), e del resto le mille analisi disponibili sul fenomeno populista in generale hanno dimostrato che questo faccia breccia in maniera piuttosto trasversale nella popolazione, e che ascriverlo ai ceti impoveriti è errato. Nel supporto a Trump, poi, è ampiamente dimostrato come entrino in gioco fattori culturali, come la perdita di rilevanza dell’America bianca e rurale, che non sempre hanno corrispettivi immediati nella sfera economica. Come ha scritto Dino Amenduni nei giorni seguenti le elezioni presidenziali, riprendendo dati Edison/NYTimes, Trump perde tra i meno abbienti e vince tra i più ricchi (54% tra chi ha guadagna più di 100 mila dollari nel 2019). Del resto, abbiamo passato mesi ad additare il maschio bianco della classe medio-alta come l’elettore paradigmatico di Trump, solo per poi scoprire che il colpo di Stato americano lo fanno i proletari, che sono spesso appartenenti alle minoranze?
Da i dati Edison, così come da molti altri dati diffusi dopo le elezioni, emerge chiaramente come la divisione Trump/Biden, oltre che sul censo, si sia strutturata su caratteristiche culturali, etniche, sociali, sul modo di vedere la pandemia e sulla visione del cambiamento climatico: potremmo quasi dire su elementi “spirituali”, intesi come elementi non immediatamente riconducibili alla sfera economia ma afferenti al piano culturale e delle identità collettive. Questi elementi spirituali non negano, certo, la compresenza di quelli economici, ma gli uni e gli altri stanno di fianco, creando una totalità che non è schematizzatile in una singola prospettiva.
Questa fretta di certa sinistra di andare a rintracciare l’origine di tutto nelle diseguaglianze anche se i dati mostrano una realtà più sfaccettata è forse un retaggio di una cultura di sinistra “tradizionale”, che trova nell’armamentario teorico marxista (e non necessariamente marxiano) gli strumenti di lettura del presente. Cos’è quest’automatismo che vede nel piano economico la spiegazione di tutto, in fondo, se non l’adesione totale al rapporto tra struttura (economica) e sovrastruttura (culturale), legati deterministicamente nel pensiero di Marx?
Un rapporto così ineluttabile che diventa utile per spiegare molti fenomeni, ma che lascia inevitabilmente fuori tutta una serie di elementi che entrano in gioco nei fenomeni sociali e politici. Del resto, gli stessi padri del socialismo scientifico cercarono di ammorbidire questo rapporto, vedendo quanto la derivazione della sovrastruttura dalla struttura fosse utilizzata in maniera riduttiva dai discepoli, in un processo culminato con Antonio Gramsci e con la tematizzazione delle ideologie come elementi capaci di influire sulla realtà politica tanto quanto farebbe la struttura economica.
Additando le diseguaglianze come sostrato di ogni conflitto, senza considerare elementi spirituali, si può forse fare i buoni marxisti, ma non necessariamente si descrive la realtà (e questo al di là di quanto, ancora oggi, il pensiero marxiano possa aiutare a capire il presente). Ridurre tutto a disparità sociali cela una certa svogliatezza nel voler approfondire la questione, in maniera simile a quegli studenti di filosofia che sostengono che non serva leggere Hegel per capire Marx, ma solo perché non vogliono leggere seriamente Hegel.
Di fronte al trumpismo e al populismo, di fronte a QAnon e alla negazione del cambiamento climatico, si può davvero ricondurre tutto alle diseguaglianze? O il rifiuto di considerare più elementi non appare come una risposta pigra e che usa schemi vecchi e rassicuranti verso fenomeni che – ammettiamolo – sono almeno in parte nuovi, e pertanto richiedono di aggiornare gli strumenti con cui leggiamo il mondo?
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