Filosofia
Le buddhanate di Fabrizio Rondolino
Il pāli è la lingua affine al sanscrito nella quale è scritto il Canone buddhista più antico (il Tipitaka). E’ una lingua apparentemente più semplice del sanscrito, se non altro perché non si presenta nella complessa (ma bellissima) scrittura devanagari, e tuttavia è una lingua difficile, che richiede anni di studio intenso per essere padroneggiata. Il Dhammapada è uno dei testi buddhisti più importanti e belli, una raccolta di insegnamenti che racchiudono il cuore dell’insegnamento buddhista con passi di grande intensità e forte suggestione; ed è scritto in lingua pāli.
Ora, mettiamo che un editore – un grande editore – voglia fare una edizione del Dhammapada. A chi affiderà la traduzione? A un sanscritista di fama? A qualche giovane studioso da valorizzare? Macché. A Fabrizio Rondolino. Che di pāli non sa una sola parola, ma compare spesso in televisione. A lui la Mondadori affida la traduzione e la cura della nuova edizione del Dhammapada nella collana Oscar. Nella introduzione seraficamente premette: “Questa nuova edizione ‘traduce’ altre traduzioni inglesi, italiane, francesi e tedesche”. Come il buon Vincenzo Monti, “traduttor de’ traduttor” (così lo coglionò Ugo Foscolo); con la differenza che Monti tradusse in endecasillabi. Non c’è nemmeno un minimo di apparato critico, indispensabile per un testo così lontano nello spazio e nel tempo. Di questi due punti di debolezza Rondolino cerca di fare punti forza con deprimente sfacciataggine: la traduzione, dice, intende “offrire un testo semplice, scritto in lingua corrente, piacevole e immediatamente comprensibile” (e se non è immediatamente comprensibile che si fa?), e non ci sono note perché “la traduzione, per dir così, incorpora anche una sorta di commento rendendolo superfluo”. Cioè: Rondolino al tempo stesso traduce (dai traduttori) e commenta, ma il lettore non ha il diritto di sapere cosa è del testo originale e cosa di Rondolino. Gli viene servito un pastone nel quale non si sa bene cosa è originale e cosa aggiunto, con la promessa che sarà però un pastone gradevole. Che di questi tempi è la cosa essenziale.
Guardiamola un po’, questa traduzione.
Il Dhammapada comincia con questo verso:
Manopubbaṅgamā dhammā, manoseṭṭhā manomayā.
Rondolino traduce (dai traduttori):
Tutto ciò che esiste esiste dapprima nella nostra mente.
Vediamo la versione di un traduttore di ben altro livello, l’indologo (docente di sanscrito presso l’Orientale di Napoli) Francesco Sferra (dal primo volume de La rivelazione del Buddha, nei Meridiani):
Preceduti dalla mente (mano) sono gli stati mentali (dhamma).
Le due versioni differiscono in modo profondo. Rondolino dice che tutto quello che esiste c’è prima nella mente, Sferra sostiene che sono gli stati mentali a procedere dalla mente (che non è la stessa cosa di “essere prima”). La difficoltà consiste, oltre che nel verbo, nella parola dhamma (in sanscrito dharma), uno dei termini più complessi del buddhismo (che si chiama, peraltro, Buddhadhamma, dhamma del Buddha): in ambito buddhista ha il senso di dottrina, legge, ma indica anche un fenomeno, e può essere interpretato, come fa Sferra, nel senso di fenomeno mentale; in ambito hinduista può indicare anche il dovere legato alla casta (svadharma). Ma difficile, nel verso, è anche il termine mano, che opportunamente Sferra segnala tra parentesi. Quando un occidentale legge mente, lo fa alla luce della concezione occidentale della mente: la versione non sostanzialistica della vecchia anima, pensata in contrapposizione/alternativa al corpo. Nel buddhismo invece mano, la mente, appartiene alla sfera sensoriale (āyatana) e si aggiunge ai cinque sensi che conosciamo. Ma il lettore non lo sa, se non glielo si dice. E se non lo sa, non capisce. O meglio, accade qualcosa di peggio: crede di aver capito, anche se non ha capito affatto. Capisce quello che gli si vuole far capire.
Sarebbe bello se si potesse comprendere alla prima lettura, e per giunta leggendo un testo che traduce altre traduzioni, e che rende tutto facile e piacevole, un libro appartenente a un’altra tradizione culturale e religiosa. Ma le cose non sono così semplici. Rondolino si fa beffa della “involontaria comicità” dei filologi, che cercano di accertare un’autenticità testuale che invece nel caso del buddhismo sarebbe inutile. Lo è, sicuramente, per il buddhismo easy alla Rondolino. Chiunque sia interessato alla reale comprensione del buddhismo e ad un dialogo interculturale sfrondato da ogni equivoco non può che essere grato ai filologi per il loro lavoro difficile e misconosciuto.
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