Filosofia

Lavoro: una favola senza lieto fine?

11 Febbraio 2022

Caro Cigno Nero,
ricordo che al liceo rimasi turbata dalle idee di Hobbes. Quell’ “homo homini lupus”, quell’ istinto di sopravvivenza e sopraffazione che riconosceva predominante negli uomini e a fondamento dello stato di natura, mi indignò profondamente.
Nelle letture più adulte, tra i “Quaderni del carcere”, Gramsci squarciò il cielo: ” Homo homini lupus, foemina foeminae lupior, sacerdos sacerdotis lupissimus”.
Eppure la mia realtà quotidiana è stata perlopiù diversa, la mia esperienza di vita è stata meno feroce seppur costellata da talune delusioni umane; talvolta nei rapporti personali, talaltra in quelli professionali.
Così mi pareva fosse, almeno fino ad un mese fa, quando in tutta la sua crudezza, ho dovuto riconoscere la solida verità delle affermazioni di Hobbes e di Gramsci.
Essere responsabili e disponibili nel lavoro, solidali con i colleghi, attenti ai fragili equilibri da mantenere nel lavoro con i minori, può diventare un inferno.
Studi scientifici hanno dimostrato che gli uomini non si preoccupano affatto dei loro simili in difficoltà, non si interessano delle loro sorti, anzi sono pronti a vessarli per il proprio tornaconto personale. 
Soprattutto nel lavoro, soprattutto per danaro. 
Come potrò imparare a riconoscere i lupi, in futuro?
Cappuccetto Rosso

 

Cara Cappuccetto Rosso,
ci è capitato di soffermarci su questo aspetto hobbesiano circa un anno fa, finendo per accorgerci del pregiudizio che aleggia intorno ai lupi. Allora, con l’aiuto di Mark Rowlands, filosofo che con un lupo aveva convissuto per 11 anni, scoprivamo che la cattiveria del genere che racconti non appartiene tanto a questo animale così vessato, cui attribuiamo ferocia e crudeltà, quanto ad un altro, invece assai lodato, e forse un po’ per autocelebrazione perché è da lì che veniamo. Sto parlando della scimmia, subdola e calcolatrice, con un funzionamento unicamente strumentale. Sono le scimmie a vivere senza legge, perché i lupi seguono quella della giungla, sicuramente istintiva ma altrettanto sincera. Al vaglio della prova di Kundera, che stima la bontà di qualcuno dalla relazione che instaura con chi non ha forza ‒  cioè nel momento in cui decade ogni ragione strumentale di trattarlo con rispetto e civiltà ‒ , Rowlands rileva che è la scimmia a uscirne malvagia, nonostante il suo cervello sia molto simile al nostro per dimensione e inclinazione sociale. O forse proprio per questo.
Starà anche qui la ragione per cui la letteratura contemporanea, soprattutto per l’infanzia, continua a lavorare sodo al riscatto del lupo, senza che però lui perda la potenza, il fascino e l’energia che il suo archetipo si porta dietro da secoli.
Questa precisazione non è un puntiglio circoscritto alla questione nominale ‒ per la quale sarebbe sufficiente sostituire quel “lupo” con “scimmia” nella tua mail e addentrarci nel problema che poni ‒, ma si fa sostanziale nel momento in cui la “crudezza” che descrivi non sembra la selvaggia voracità del lupo quando ha fame, bensì più similare alla cattiveria sociale della scimmia quando imbroglia senza scrupolo alcuno.
Che non siamo sempre buoni e giusti è un’ovvietà per la quale non serve tornare a Freud e a Thánatos, la nostra pulsione distruttrice, e neppure a Eraclito e al suo Pólemos, la guerra, come principio di tutto ciò che è. Il dato chiaro anche a Gramsci è che il mondo innocente di Cappuccetto Rosso resta una storia, una delle tante che ci raccontiamo per trasporre il male fuori di noi, così da poterlo esorcizzare.
Altro è il pensiero di Rousseau, per cui i nostri mali vennero da quell’uomo che per primo “avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare: Questo è mio, e trovò altri così ingenui da credergli”, aprendo la strada alla malattia del possesso, con l’egoismo e l’avidità che ad esso si accompagnano.
Se infatti le differenze con gli animali non si contano ‒ dalla postura eretta alla parola, dal pollice opponibile al pensare, dal seppellire i morti al libero arbitrio ‒ forse nel nostro discorso il punto è la tendenza tutta umana a non limitarci ad appagare i bisogni, ma a trascenderli sempre, e senza alcun senso della misura. Succede così che niente ci basta mai. Non ci basta mai ciò che abbiamo, e non ci basta mai ciò che siamo.
La tua domanda è tuttavia precisa, e verte su come scamparla questa cattiveria, interrogativo che ci dispenserebbe dall’enigma della sua derivazione ‒ se cioè sia per natura che nasciamo degenerati o se sia la società a degenerarci ‒.
Ora, per Hobbes, che propendeva per la prima ipotesi, l’unico rimedio era lo Stato, potente Leviatano capace di contenere, di arginare cioè quell’inclinazione allo sconfinamento del limite che dicevamo. Il medesimo discorso, tuttavia, sottratto alla politica, si fa difficilmente sostenibile se trasposto all’ambito lavorativo ‒ almeno per quello che è diventato nel nostro tempo ‒, perché il libero mercato e il lavoro privatizzato non ammettono limiti, tantomeno alle prestazioni richieste, se non quelli millantati sulla carta. Concorrenza e competizione, principio di prestazione unito a quell’avidità di cui parlavamo: tutto ci porta alla fame compulsiva di vincere, e la vittoria chiede di sopraffare, andare oltre la soglia della norma, intesa come legge, ma ancor più come normalità nel senso della medietà da cui ci si vuole (e)levare.
Il problema non è tanto il desiderio di oltrepassare i propri limiti per migliorarsi, giacché sappiamo quanto sia stata anche preziosa l’audacia nel superare le colonne d’Ercole del sapere violando  la norma della normalità. Il problema del neoliberismo è che chi ha il potere è liberissimo di infrangere i propri limiti, compresi quelli morali ed etici, sfondando però anche il limite di chi a quel potere è sottoposto e di quel limite ha bisogno.
Potremmo pure guardare a un’altra economia possibile, come alcune belle realtà indipendenti di paesi altri, rispettose della natura in primo luogo e dei propri simili di conseguenza, in uno spirito di sorellanza e fratellanza che la nostra società non conosce, e scoprire così che l’oscillazione di cui prima ‒ natura o cultura ‒ non è un bivio, perché il nostro modo di interagire con la natura incide sul nostro modo di costruirci una cultura e vivere in società.
Ma siamo qui, e qui, con questo sistema, ci confrontiamo.
I nostri rapporti professionali sono molto particolari perché sul posto di lavoro non portiamo solo ciò che facciamo, ma anche chi siamo, e, soprattutto in un contesto di relazione con i minori, è impossibile dismettere il lato umano e lasciarlo fuori dalla porta, trovandoci così “scoperti” e vulnerabili. Se solo fossimo capaci di scindere nettamente le due sfere, di dimezzarci, di metterci un bell’ “impermeabile” prima di entrare in ufficio… E invece questa umanità che ci portiamo addosso apre a situazioni complicate col potere, perché diventa arduo capire quando, come e con chi sia il caso di scoprirsi oppure no.
Il fatto è che il lavoro non è democratico, perché se da un lato la democrazia esige trasparenza, nelle dinamiche come nei processi decisionali, dall’altro tutela la privacy, lasciando una zona intima e sacra in cui non essere sorvegliati. Nel lavoro, invece, almeno per come la maggior parte di noi lo sperimenta, tutto questo non avviene: siamo in una relazione sbilanciata che ha ben poco di trasparente, perché chi è in posizione di potere lo dissimula giocando alla grande famiglia, una famiglia posticcia che ci accompagna fin dentro casa la sera, con tanto di gioie e preoccupazioni, in barba alla riservatezza degli spazi personali.
Allora, per tornare alla tua domanda, molto è giocato sul doppio senso dei rapporti. Sebbene asimmetrica come in questo caso, la relazione comporta sempre un qualche tipo di reciprocità, nello spazio per riconoscersi e riconoscere, per vedere e vedersi. É una questione di sguardo, lo stesso di quando in chiusura ti chiedi “come farò a riconoscere i lupi?”. Vero, siamo controllati e visti, ma vero pure che anche noi stessi possiamo vedere, cosa che spesso dimentichiamo, come se essere sottoposti al potere ci vietasse di alzare la testa, di aprire lo sguardo. Ci ricordiamo di Medusa? Impossibile guardarla senza morire pietrificati. Eppure Platone ci offre uno spunto interessante nella Repubblica, quando Socrate, nel bel mezzo di un dialogo sulla giustizia, vede “per primo” il sofista Trasimaco. Lì il filosofo sottende una credenza popolare secondo cui l’unico modo di gestire l’incontro con un lupo è guardarlo per primi, affinché quello non ci tolga la parola.
È evidente che Platone, come tutta la nostra cultura, identifica  il male nel lupo (su questo animale, infatti, tornerà più avanti descrivendo il suo vizio peggiore, la pleonexia, cioè il bisogno di avere più della sua parte, tendenza che gli impedisce qualsiasi tipo di collaborazione spingendolo al dominio proprio dei tiranni. Ma Platone ricorderà pure che nessuno è esente dal rischio di diventare lupi…).
Ora però, tornando allo sguardo, sarebbe interessante domandarci: e se, invece di guardare ai lupi, guardassimo alla controparte? Se guardassimo a noi stessi, “disponibili, collaborativi, solidali” ‒ forse troppo agnelli, tanto per restare nell’immaginario comune ‒, che succederebbe? Presentandoci da agnelli, gli altri si sentiranno legittimati a trattarci come tali, e noi finiremo per offenderci, per restarci male, ne usciremo feriti. Una ragione possibile potrebbe stare nel non esserci guardati troppo allo specchio, nel non essere stati cioè troppo consapevoli di chi siamo? E questo sarebbe pericoloso: ce lo insegna proprio Medusa, che muore nell’esatto momento in cui si vede riflessa per la prima volta. Voglio dire che magari, prima ancora di riconoscere l’altro ‒ lupo, agnello o scimmia che sia ‒ , sarebbe opportuno  (ri)conoscerci. Stava proprio qui, nel “conosci te stesso”, l’assillo costante di quel Socrate che riesce a vedere Trasimaco.
Solo in questo esercizio continuo possiamo sentirci un po’ più sicuri, almeno al punto da tenere la schiena dritta e poter guardare. E guardare per primi vuol dire salvarsi. Forse riconoscersi è il primo passo per riconoscere, per vedere, quindi per continuare ad avere parola.

Cappuccetto Rosso ‒ erudita così bene dalla sua mamma ‒ in realtà riconosce immediatamente il lupo quando lo incontra nel bosco, ma non ne ha paura. Quella arriva dopo, quando il lupo non è lupo, è travestito, da umano per giunta, e da chi quella bambina adora per giunta. Alla luce di questa premessa, siamo così sicuri che il problema urgente sia quello di “riconoscere il lupo” quando lo incontriamo?

Irene Merlini

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