Filosofia
Autodafé: per un superamento degli zoo di carta
Un uomo colto raccoglie volumi e semina appunti, sbircia tra le pagine leggendo instancabile. L’intellettuale collezionista, un po’ ossessivo, smania per passare oltre la frase sottomano, perché già capita, superflua e inclusa. Chi non ci sta è fuori per sempre, escluso da un’élite che in ogni occasione sa sempre “citarsi addosso” – recitava il titolo di un libretto Bompiani di Woody Allen, fidato compagno per tutto il mio liceo.
Mi viene in mente il professor Kien, protagonista del primo, noiosissimo romanzo di Canetti: Auto da fé. Ma chi lo termina ha tante soddisfazioni. Kien, un pazzo, ha rinchiuso volumi a migliaia nell’asfittica biblioteca di casa sua. I libri vanno toccati con guanti da medico perché non si sciupino – l’identificazione col personaggio qui è totale: mi impongo spesso di non aprire del tutto un libro per non far comparire rughe sul dorso delle mie edizioni. Nel finale un fuoco distrugge tutto, sintesi di una dialettica Testa-Mondo tracciata per cinquecento pagine. “Testa senza mondo”, un uomo in perpetuo isolamento. “Mondo senza testa”, l’uomo esce di casa e vaga nella Vienna più grottesca in compagnia di un nano. Poi il finale con lo schizofrenico autodafé, “Il mondo nella testa”: Kien ha eluso la vita oscurandosi dal mondo, e alla fine ha ripreso luce nel rogo che la vita stessa gli ha acceso nel cervello, in una variante psicotica.
Nell’accumulo seriale di conoscenza descritto – sono passati ottant’anni dall’uscita del romanzo – prende forma una crisi: crisi della cultura come elemento vivificatore, crisi di quella conoscenza incapace di rivolgersi alla vita. Noi, «uomini della conoscenza», seppellendo continuamente nozioni dimentichiamo di conoscere noi stessi. Così inizia pressappoco la Genealogia della morale di Nietzsche, sempre fastidiosamente profetico.
Quando cado nelle ossessioni teatrali per cui devo vedere ogni spettacolo, o se ripenso agli anni in cui leggevo senza soluzione di continuità tutti i romanzi che vanno letti per forza, mi accorgo che permane in me una tendenza all’accumulo scriteriato, e che spesso procedo per il gusto stesso dell’accumulare. Mi capita così di accusarmi di superficialità, di disonestà intellettuale: mi sento più interessato alla meta che al percorso, all’involucro esibizionistico, non al contenuto. E ricordo un analogo invasamento maniacale quando da bambino supplicavo mia madre di comprarmi i fossili che vendevano in edicola, solo per averli.
Eccolo quindi il dispositivo: la cultura che si sa, ma non si fa. La conoscenza che non conosce se stessa. E la questione è etica, non epistemologica. Anche Husserl ha parlato di crisi, ma si riferiva alle scienze – europee perché il metodo è solo europeo –, e ha ben argomentato in merito al soggetto sbagliato: non è la scienza ad aver perduto il suo fondamento pratico, il suo riferimento alla vita. Quando si inizia a fare scienza, la vita è per forza costretta a passare in un altro spazio. La scienza parla con la matematica, che occupa uno «spazio senz’aria», dice Imma in Altezza reale: sono presupposti che vanno lasciati andare, che devono operare “come se” la vita fosse altrove – tanto poi la vita, l’errore, la sbavatura ricompaiono e il ciclo ricomincia.
Il fondamento perso è piuttosto quello delle scienze umane, delle scienze dello spirito, e quello dell’arte – che sia figurativa, musicale o drammatica. Forse è per questo che soprattutto in campo artistico si è speculato sul ritorno alle sorgenti, ai motivi originari. Travolti dalle forme e apparenze di una potenza analitica così irrimediabilmente occidentale, tanti si sono rifugiati nella preistoria delle intenzioni artistiche, o in regioni geografiche inesplorate del nostro presente. Dai viaggi tra i Tarahumara messicani di Antonin Artaud, alle ricerche sugli aspetti percettivi del suono nei lavori di John Cage, l’arte ha saputo ristrutturare nel profondo i suoi sostegni, ha saputo spostarsi dall’altra parte delle cose.
Ma le reazioni sono sempre disinteressate o di erudita elencazione. Il disinteresse è quello del vasto pubblico, ignaro dello stato presente della ricerca e assuefatto dalla grandezza degli incontestabili giganti del passato, dei “classici”. L’erudizione è invece accademica e cade nella schedatura cosiddetta scientifica, che stavolta davvero ignora del tutto la vita della materia catalogata.
E dagli inaccessibili zoo di carta che ci circondano proviene tutta la frustrazione di una cultura che non dice, non esprime e non riesce quasi più a muoversi. Una cultura che aspetta solo di essere messa in discussione, di rientrare nelle classi di giusto e sbagliato, bello e brutto: perché fuori dalla fredda eternità degli dei, la creazione umana cade sotto l’imperfetta categoria della conoscenza, sempre perfettibile.
Guardarsi dall’algido citazionismo per ridare senso a quanto si scrive: un obiettivo che io stesso tradisco inesorabilmente in tutti i riferimenti che sto proponendo qui, vittima dello stesso dispositivo che sto tentando di smascherare.
Solo appiccando un fuoco gli oggetti museali possono ricominciare a vibrare con calore luminescente: in un passaggio dall’inorganica freddezza dell’indiscutibile, all’organica espressività della realizzazione. Serve un rogo, lo stesso del professor Kien nel romanzo di Canetti, lo stesso che fa vibrare l’estasi di Maria Falconetti nel finale della Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer.
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