Filosofia

L’attesa della gioia di un abbraccio

3 Aprile 2020

Il Coranavirus sta cambiando le nostre abitudini, ma ha sconvolto anche i nostri sentimenti e comportamenti.
Incapaci ad oggi di rinvenire un vaccino contro il virus ed una strategia risolutiva e debellatrice per sconfiggere il male definitivamente, siamo in una posizione di attesa.
E dell’attesa scopriamo la parte migliore, ne prendiamo l’essenza, ne contempliamo gli effetti anche sovvertendo radicalmente, in bene, le nostre abitudini.
Non abbiamo più la forza di attendere: vogliamo tutto e subito, incapaci di trepidare, di scoprire quello che verrà, di pazientare la venuta dell’evento.
Non riflettiamo, non pensiamo, non ci crogioliamo nella lentezza, nell’assaporare lo scorrere del tempo.
L’attesa è annodata con la pazienza, quella che Simone Weil definiva “attesa mendicante di Dio”, sull’assunto che ogni evento della vita fosse già scritto, fosse mosso da Dio, come se la provvidenza camminasse con la storia: Dio è un mendicante che attende amore.
Stiamo comprendendo oggi con il contagio imperante che chi sa attendere ragiona, medita, sa percepire le mosse dell’interlocutore, non è un violento e la sua calma è mitezza, è tolleranza.
Sa colorare la vita, sa offrire una spiegazione ad ogni evento, anche a quello più irragionevole. Sa patire. Perché pazienza deriva da “pati” che significa sopportare. L’attendere implica un rivolgere l’animo a qualcosa, un ascoltare con trasporto, un applicarsi, un curare, un badare.
Abbiamo anche inteso che l’attendere procuri  dolore.
Si può aspettare con il freddo nel cuore o bruciando di desiderio.
Si può attendere anche un triste evento o disperdersi nell’angoscia per il compimento di ciò che già sapevamo, perché era scritto, doveva andare così, era ineluttabile.
Nell’amore, perché non possiamo neanche più toccarci, l’attesa sviluppa una dinamica che involge le profondità dell’esistenza.
“La culla dondola sopra un abisso” scrisse Nabokov: a chi aspetta viene sempre in qualche modo ricordato questo abisso. «La fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta», scrive Roland Barthes in “Frammenti di un discorso amoroso”, una sorta di alfabeto in cui aspettare e amare sono quasi sinonimi.
L’altro è in stato di perpetua partenza, sempre sul punto di mettersi in viaggio; egli è, per vocazione, migratore, errante; io che amo sono, invece, per vocazione inversa, sedentario, immobile, a disposizione, in attesa, sempre nello stesso posto, in giacenza, come un pacco in un angolo sperduto di una stazione.
Prima si scrivevano le lettere d’amore e si aspettava e nel mentre arrivava la risposta se ne preparava un’altra, con maggior dedizione.
Oggi la parola chiave è: “Simultaneo”.
Scrivo una email e attendo la risposta immediata. Se non arriva m’infastidisco: “perché non risponde?”
Lo scambio epistolare in passato era il luogo del tempo differito.
Le buste andavano e arrivavano a ritmi lenti.
Per non dire poi dei sistemi di messaggi istantanei cui ricorriamo: WhatsApp, Sms.
Eppure tutto intorno implica che il tempo voglia il suo spazio, il suo ineluttabile ed insopprimibile scorrere.
La notte resta prima del giorno, la gestazione di un bimbo è nei nove mesi, quel viaggio deve comunque durare.
Aspettiamo nelle stazioni, negli aeroporti, agli sportelli.
Attendiamo sempre, eppure non lo sappiamo più fare. Come minimo ci innervosiamo. L’attesa provoca persino rancore. Pensiamo: non si può fare più velocemente?
La verità è che noi non sopportiamo queste zone intermedie, gli spazi e i tempi in cui siamo costretti a esercitare la pazienza. Aspettare è vissuto come un’imposizione.

“Oggi che t’aspettavo non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava,
nel vuoto che hai lasciato,
come una stella.”

Così scrive il poeta Cardarelli, perché l’attesa è anche solitudine, mancanza, disincanto, orrore del vuoto, disillusione.
Ma l’attesa è anche gioia, speranza: dopo l’arsura arriva la pioggia, ci ricorda Montale nella “Gloria del disteso mezzogiorno” e nell’attendere è “gioia più compita”.

“Ora che sei venuta,
che con passo di danza sei entrata
nella mia vita
quasi folata in una stanza chiusa –
a festeggiarti, bene tanto atteso,
le parole mi mancano e la voce
e tacerti vicino già mi basta”.

Si canta così nella poesia di Camillo Sbarbaro.
In realtà in “Aspettando Godot” si dice anche: “ma il tempo sarebbe passato lo stesso”.
Ma l’attesa supera l’impazienza. Perché gli uomini si devono incontrare, i bambini devono crescere, gli amanti si devono plasmare nella gioia, la rabbia deve passare, il mare diventare cheto, la parola deve prendere la sua forma.
La pazienza deve dominare l’attesa, come la rugiada sulle corolle e la quiete deve arrivare dopo la tempesta.
Ed arriverà la felicità dopo questa epidemia: la candela non si scioglierà nel moccolo inaridito, ma esalerà il suo profumo di speranza,rinverdita dalla gioia che sta per sopraggiungere e piangeremo di una commozione felice e compiremo il gesto più bello: un intenso abbraccio per vivere dopo nella sobrietà e nella mitezza.

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