Filosofia
Lasciarsi accedere la vita, a Bihac (Bosnia)
Lasciarsi accadere la vita
(Rilke)
Anche questa volta sono stato, almeno per poco, pervaso da quella stupida vertigine per coglioni che è il viaggio (nello specifico a Bihac, in Bosnia, al confine con la Croazia). Mi accade sempre alla fine, anche quando mi convinco che, da buon cittadino del mondo, mi sento a casa un po’ ovunque. Col c***o. Come quando sono stato in Niger, poi in Libano, in contesti ai margini del mondo, le aspettative sono state sempre disattese, semplicemente perché mi aspettavo le cose sbagliate, la realtà è sempre più creativa della propria immaginazione. Tanto vale non farsi illusioni. Ma la lezione non l’ho studiata bene, Bosnia here we go.
In Europa non si ha nulla da dirsi, ognuno parla solo delle proprie pene personali, si sa, no? Ciascuno per sé, la terra per tutti. Ma in Bosnia no. La terra non è per tutti, e le pene sono condivise. Qui sorge una prima disfasia: sono Eroupeo, snoo osNiacoB?
Da che parte si sta?
In Bosnia non sono stato all’estero. Sono stato a casa. Sì, per tre giorni sono stato a casa. In una casa dove le relazioni vengono prima, dove i volti vengono prima. Anche nella loro brutalità e violenza. Poi sono tornato in Italia, ed è l’Italia ad essere diventata terra straniera. Straniera in un modo diverso, è Indifferente. Sulla via del “ritorno” – anch’io non immune al potere dei Social – ho letto un post in un gruppo aperto di Facebook di Lodi: “Dove posso andare a fare la spesa portando il cane?”. Ecco questa non è casa mia. Casa mia è dove si ascolta il grido del giusto, il grido umano.
“Dalla prima infanzia sino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti [Polizia bosniaca?], soferti [i migranti] e osservati [io, noi], si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, innanzitutto, che è sacro in ogni essere umano” (La persona e il sacro, S. Weil, la filosofa che si abbassò al grado di operaia in fabbrica).
È il grido del Cristo, del Giusto, sulla croce “Perché mi viene fatto del male?”. È casa dove un silenzio interiore mi permette di essere vicino alla verità. A volte le parole che cercano di tradurre questo grido suonano false (“Troppe parole creano il vuoto”, Qoelet…). “Ciò è tanto più inevitabile in quanto chi ha più spesso occasione di sentire che gli viene fatto del male è proprio chi è meno capace di parlare. Non c’è nulla di più orribile, ad esempio, che vedere in tribunale uno sventurato balbettare al cospetto di un magistrato che con linguaggio forbito sciorina battute di spirito. Eccetto l’intelligenza, l’unica facoltà umana veramente interessata alla pubblica libertà di espressione è quella parte del cuore che grida contro il male.”
In Bosnia si grida (si ha fame e sete) in tre lingue (religioni-etnie) diverse, si grida in arabo, si grida in inglese, si grida con un ciao detto in italiano perché è l’Italia la terra straniera e promessa.
È qui che mi sento a casa. Per ascoltare c’è bisogno di silenzio. “L’uomo ha bisogno di caldo silenzio, e invece gli si dà un gelido tumulto” (S. Weil).
Un’ultima immagine. Al campo di Vujâk – una tendopoli simile a un lager – molti uomini erano in fila in attesa di un tè caldo. Il loro sguardo era simile allo sguardo del prigioniero che Van Gogh dipinse ne La ronda dei carcerati, l’unico che ci permette di entrare nel quadro, l’unico che ci permette di entrare in relazione. È uno sguardo che non giudica, ma che ti fa sentire nudo, ed è solo a casa che puoi sentirti nudo senza provare vergogna. Perché è lo sguardo di chi ti libera, di chi, in un modo stranissimo, ti sta dicendo “grazie” di essere degno della tua compassione. Mi sento a casa dove non c’è preoccupazione di fare la spesa con il cane, “O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi” (P. Levi).
Casa è anche dove c’è qualcuno che mi aspetta, l’amata, che mi ha dedicato al ritorno questa poesia:
Confine diceva il cartello
cercai la dogana, non c’era
non vidi dietro il cancello
ombra di terra straniera.
(Giorgio Caproni, Confine, “Il muro della terra”, 1975)
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