Costume
Lasciamo lavorare le autorità scientifico-sanitarie, e ascoltiamo tutti Bach
Sembra sia di Warren Buffett la frase “only when the tide goes out do you discover who’s been swimming naked”. Che più o meno significa: soltanto quando la marea si abbassa vedi chi sta nuotando nudo. L’epidemia del coronavirus, che ha investito tutto il mondo uccidendo quasi tremila persone, sortisce il lugubre effetto di rendere evidenti le fragilità dei paesi che più colpisce. A partire dalla Cina; Pechino ha gestito l’emergenza (soprattutto nella sua prima fase) in modo assai opaco e irrazionale, facendo infuriare molti cittadini, e dimostrando come il presunto efficientismo di un regime autoritario che costruisce ospedali in uno schioccar di dita non basti a risolvere sfide complesse e inaudite. Il decisionismo, insomma, non è la panacea di tutti i mali, neanche quando è accompagnato da una potenza tecno-scientifica ed economica superiore.
Il Giappone ha governato con insipienza lo sfortunato caso della nave da crociera Diamond Princess, che si è trasformato in uno dei più gravi focolai d’infezione al di fuori della Cina, con buona pace di chi per anni ha decantato l’efficienza dell’amministrazione nipponica. E la Corea del Sud? Uno dei paesi più innovativi, dinamici e high-tech del pianeta è precipitato nella semi-paralisi a causa di un’epidemia che ha avuto come focolaio il raduno di una bizzarra e discussa setta religiosa. Per non parlare dell’Iran, dove un regime inetto sta dimostrando tutta la sua incompetenza, e dove il viceministro che negava il numero di morti dovuti al coronavirus si trova ora in quarantena, per una crudele ironia della sorte.
L’Italia è il paese occidentale più colpito. E anche qui da noi il coronavirus è riuscito a mettere a nudo le fragilità e le debolezze di una nazione che sembra davvero sull’orlo di una crisi di nervi. Mentre pare che le autorità sanitarie, la Protezione Civile e le forze dell’ordine stiano riuscendo a contenere la diffusione del virus, la classe dirigente del paese offre uno spettacolo sconvolgente: un’assurda polifonia di dichiarazioni, esternazioni, “sparate”, richieste e diktat, come se oltre al coronavirus stesse dilagando un’epidemia di decisionismo patetico, fine più a generare altra entropia e a far parlare di sé i media e i social media, piuttosto che a risolvere i problemi.
Le scuole devono riaprire? Teatri e cinema possono tornare alla normalità, le chiese possono riaccogliere i fedeli? Su questi temi l’ultima parola, de facto anche se non de jure, la devono avere le autorità scientifico-sanitarie, non questo o quel rappresentante regionale o comunale, questo o quell’imprenditore o giornalista. Per affrontare un’epidemia nel XXI secolo bisogna avere un approccio profondamente interdisciplinare e olistico, in grado di unire competenze superiori in virologia, epidemiologia, medicina, psicologia, matematica, statistica, scienza dei dati, sociologia ecc… Servono modelli predittivi geniali come quelli elaborati da Alessandro Vespignani per affrontare l’epidemia di Ebola del 2014. A quel baluardo della lotta alle epidemie che è il CDC di Atlanta, non a caso, si assumono non solo epidemiologi, ma scienziati informatici, scienziati della salute con forti competenze digitali, specialisti nella gestione delle emergenze e così via.
Quale comune può organizzare task force del genere? Quale regione? Può farlo l’Italia come sistema-paese. E del resto i cd “territori” non possono andare ciascuno per conto loro. Perché l’Italia non è un arcipelago di isole remote, e ciò che succede a Padova o a Lodi si ripercuote (quasi) subito su quanto accade a Piacenza, a Rimini o a Torino. Il pendolarismo, i treni veloci, il turismo, le filiere industriali sempre più integrate, le fiere, la capacità attrattiva di aree metropolitane come Milano hanno connesso sino quasi a saldarli tra loro pezzi importanti d’Italia.
Ovviamente se i focolai epidemici si fossero accesi in un borgo remoto dell’Appennino o della Calabria, la crisi sarebbe stata meno drammatica (e, probabilmente, trascurata). E invece no. I focolai si sono accesi nel cuore del Nuovo Triangolo Industriale, in quella Manufacturing Belt che contribuisce in modo decisivo a tenere in piedi la nostra economia, il nostro export, la nostra occupazione.
Di fronte a un fenomeno terribilmente complesso, la politica ha reagito in modo scomposto, e inadeguato. La risposta del governo non è certo esente da critiche (anche se l’operato del ministro della salute Speranza sembra aver riscosso vasti consensi), ma che dire di presidenti di regione che si producono in esternazioni o gesti clamorosi, ai limiti del masochismo? Chi ha il privilegio, per così dire, di vedere certi tg locali, è testimone dell’onnipresenza mediatica di taluni governatori e assessori regionali campioni di banalità decisioniste autorevoli come bolle di sapone.
«La situazione è sotto controllo» dice il tal politico regionale, con gli occhi spiritati, la fronte grondante di sudore, come neanche Nixon nel famoso dibattito con Kennedy. Chi potrebbe sentirsi rassicurato di fronte a una simile vista? Un elettore un po’ ingenuo, credulo, vede questo cencio d’uomo (che magari ha anche votato) sciogliersi come neve sotto il sole e pensa che la fine è vicina, che l’Armageddon incombe, che la civiltà è ormai al collasso. Mi si obietterà: il politico regionale era stanco poverino; rispondo: la stanchezza è umana e legittima, il desiderio di piazzarsi di fronte a ogni telecamera no, specie quando non si ha nulla di significativo da dire. I portavoce, poi, che ci stanno a fare?
In una regione senza alcun caso di infezione si decide di chiudere le scuole. Così. Perché? Si è consapevoli che interrompere per giorni le lezioni scompagina i piani dei poveri docenti, fa deragliare le routine familiari, si traduce (per chi non ha la buona sorte di nonni a portata di mano) in un salasso finanziario, dato che la tagesmutter fuori dall’Alto Adige non esiste, e che la/il baby-sitter pretende giustamente di essere pagata/o?
E che dire delle scelte contraddittorie, quando non proprio assurde, di certe amministrazioni comunali? Ne hanno ben raccontato i Wu Ming nel loro Diario virale. Ad esempio: si possono chiudere i teatri (in fondo, a cosa servono Sofocle e Pirandello?), ma i centri commerciali no. Le chiese e le scuole sì, ma guai a toccare i templi del consumismo contemporaneo. Giusto serrare i cinema e i musei, meno lo shopping. D’altra parte senza cultura si può campare, ma senza aperitivo la sera si rischia la dannazione dell’anima. Guai a interrompere il sacro rito dell’happy hour!
Mi si dirà: i baristi soffrono! Lo so, e mi dispiace molto, perché bar e caffè rendono le nostre città più piacevoli, belle e vive. Tuttavia soffrono tutti, dall’universitario fuorisede a cui rimandano due esami, all’imprenditore che deve fermare le macchine; dall’hostess precaria a cui salta la fiera, alla madre single che lavora e non sa a chi affidare il figlio piccolo; dal rito funebre ridotto ai minimi termini, al viaggiatore che si ritrova bloccato per ore su un treno. Per non parlare dei medici e degli infermieri in prima linea con turni massacranti, degli immunodepressi, degli anziani, dei cittadini in quarantena e soprattutto dei malati.
È evidente come la scelta di chiudere alcuni luoghi pubblici sia stata dettata non da indicazioni scientifico-sanitarie, ma politiche. Credere che una chiesa rischi di essere più affollata di un negozio di elettronica, nell’Italia del 2020, vuol dire non frequentare una chiesa dal 1960 (o non aver mai comprato uno smartphone). Per non parlare di certa opposizione di destra, che anziché ritirarsi in pensosa clausura in qualche stabilimento balneare di Milano Marittima, un giorno esige la blindatura totale e assoluta dei patri confini, e il giorno dopo chiede manovre da decine di miliardi, e invoca la riapertura di tutto.
Di fronte al caos coronavirus, sorgono dubbi sull’efficacia del decentramento amministrativo. Il regionalismo, è evidente, non è la soluzione ai guai nazionali. Anzi: rischia di amplificarli, proprio come moltiplica i centri di spesa, di accrescere l’anarchia intrinseca all’Italia (bisognerebbe forse conferire competenze chiare e nette – e maggior autonomia – alle province, come dimostrano le eccellenze alpine del Trentino e dell’Alto Adige, ma questa è un’altra storia…)
In ogni caso sarebbe ingiusto prendersela solo con la politica. Che, in parte, è il riflesso di una società allo sbando. Nevrotica ed edonista. Qui è una porzione importante di classe dirigente italiana a mostrare le sue lacune. I diktat di certi imprenditori non possono non suscitare perplessità. «Ora il governo faccia…», «ora il governo vari…». Tono vagamente padronale a parte (che sia Conte II o Berlusconi III, il governo è pur sempre il governo), il tal imprenditore capisce che le ragioni dell’economia devono cedere il passo alle ragioni della salute? E non solo per ovvi motivi morali e costituzionali, ma perché se non si stronca l’epidemia, se non la si debella pienamente, la batosta rischia di trasformarsi in una catastrofe. Il dramma aziendale, in tragedia macroeconomica. Di nuovo: si attendano le indicazioni delle autorità scientifico-sanitarie. Saranno loro a dire se si può totalmente ripartire, o meno.
Piuttosto, questi imprenditori autorevoli si prodighino per una serie di tavoli con tutte le parti sociali allo scopo di elaborare misure serie per la ripartenza. Mini-patrimoniale per rilanciare gli investimenti e la spesa in R&D e sanità? Misure straordinarie e innovative a favore dei settori del turismo, del piccolo commercio, della cultura e della ristorazione? Qualche giorno festivo in meno, da recuperare nel 2021 e nel 2022? Tutti dovranno fare i sacrifici; che non debbano farli sempre i soliti. Deve davvero sempre piovere sul bagnato?
In ultimo, qualche domanda se la dovrebbero fare pure gli operatori dell’informazione. Certi talk show, certi “approfondimenti”, certi titoli sembravano concepiti apposta per amplificare il caos. Un po’ di austerità e continenza verbale non guasterebbe. Perché se l’Italia funziona meno bene di quanto dovrebbe, la colpa è anche degli urlatori di professione, di certi ospiti perpetui over-60 sempre pronti a sbroccare istericamente, di talune commentatrici in carriera con laurea in tuttologia stizzita, dei conduttori che aizzano un attempato solone contro l’altro, in un girone cacofonico di perversa anti-pedagogia.
Di recente, confrontandomi con un professionista ultracinquantenne dal cv internazionale, ho potuto apprendere che “a cinquant’anni non puoi più avere pazienza”. Davvero? Un tempo si riteneva il contrario. Che l’intemperanza e l’impazienza fossero un vizio della giovinezza, e che la saggezza e la pacatezza fossero proprie dell’età matura. Oggi non è più così. Oggi i vecchi offrono, spesso, un pessimo esempio alle nuove generazioni. La loro irrequietezza (figlia di una frustrazione che neanche la vacanza più rilassante, il SUV più lussuoso e la casa al mare più panoramica possono appagare) fa presagire il peggio. E se quello che dovrebbe essere oro arrugginisce, il ferro che farà?
Chi scrive ha visto con i suoi occhi nonnine che riempivano il carrello sino all’inverosimile di acqua minerale, surgelati e disinfettanti, e studenti di giurisprudenza (non di medicina!) che citavano in modo pacato le indicazioni del Ministero della salute, e invitavano i genitori a tenere i nervi saldi. Un’inversione quasi carnevalesca dei modi e delle condotte.
Forse una pausa di riflessione collettiva potrebbe aiutarci tutti. Potrebbe dare un po’ di fiato a una società sempre più vecchia, nevrotica, impaziente, bisbetica e superstiziosa. Le TV e le radio potrebbero, per due o tre giorni, sospendere tutti i talk show e gli approfondimenti, e limitare il diritto a essere informati ai soli tg, che del resto bastano e avanzano. 48, 72 ore di tranquillità.
Dai canali nazionali a quelli locali, dalle reti ammiraglie alle più scalcagnate tv locali, si potrebbero trasmettere documentari sulla natura e sull’arte medievale, concerti di Bach e Mozart, letture di Seneca, Petrarca, Montaigne e Tony Judt, riflessioni pacate del Santo Padre, di preti, rabbini, pastori, pensatori islamici e monaci buddisti. In Norvegia c’è la slow TV, perché da noi no? Nelle stazioni ferroviarie e in metropolitana gli altoparlanti potrebbero diffondere, ad esempio, Debussy e i canti gregoriani, e per qualche giorno la classe dirigente potrebbe esimersi dall’esternare, ai media e sui social media. È un’utopia? Senz’altro. Ma a estremi mali, estremi – utopici – rimedi.
Si ringrazia Pixabay per l’immagine.
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