America
La vittoria di Rand Paul: un Tea Party alla Casa Bianca?
La consultazione che si è tenuta in occasione dell’annuale Conservative Political Action Conference (CPAC) lo scorso 28 febbraio ha incoronato vincitore il senatore repubblicano Rand Paul. Un evento in sé stesso magari non eclatante e inaspettato (si tratta difatti della sua terza vittoria consecutiva) ma che comunque assume un significato particolare, se considerato alla luce delle ormai imminenti primarie del 2016.
In termini politico-ideologici la figura di Rand non è certo quella di un signor Nessuno, inserendosi – al contrario – all’interno di una tradizione chiara e ben precisa nell’ambito della conformazione politica statunitense. Figlio di quel Ron Paul, considerato tra gli storici esponenti del Libertarianism americano (di destra), Rand ne ha raccolto in buona sostanza l’eredità, conferendole comunque alcuni aspetti caratteristici suoi propri.
Storicamente il Libertarianism rivendica di essere il più genuino interprete dell’autentica tradizione americana. Non è difatti un caso che lo slogan utilizzato da Ron nella campagna del 2012 («Restore America now») inneggiasse più alla restaurazione di valori perduti che ai principi di progresso e innovazione. Quei valori perduti che Ron ha in buona parte mutuato dalle tesi economico-filosofiche del suo maestro Murray N. Rothbard, famoso nel panorama intellettuale statunitense per le sue posizioni anarco-capitaliste: improntate, cioè, all’idea secondo cui il mercato dovrebbe ipso facto prendere il posto dello Stato, attraverso una radicale sostituzione delle leggi positive (considerate iniquamente coercitive) con il solo e semplice diritto naturale.
Pur non pervenendo a posizioni così estreme, Ron ha sempre impostato i suoi programmi politici e le proprie campagne elettorali sui principi della libertà individuale e dei tagli alla spesa pubblica, nonché su una profonda diffidenza verso ogni interventismo in politica estera e su un’agenda bioetica di stampo conservatore.
In tal senso, le tesi di Rand non si discostano affatto da quelle paterne. L’aspetto di maggior novità – se vogliamo – è da ricercarsi semmai nel suo progressivo apparentamento con il movimento del Tea Party nel corso degli anni. Una novità pur sempre relativa, dal momento che comunque il Tea Party ha costantemente considerato lo stesso Ron Paul una sorta di ispiratore per la propria ideologia (soprattutto sul versante più marcatamente antistatalista). Una novità che tuttavia potrebbe avere ricadute più sul fronte pragmaticamente politico che su quello ideologico-filosofico: il consenso conservatore coagulatosi intorno a Rand potrebbe difatti rivelare un crescente appoggio elettorale verso lo stesso Tea Party. E questo non può che porre dei seri interrogativi a pochi mesi dalla prossima corsa presidenziale.
Notoriamente il Tea Party si è da sempre trovato ad essere espressione di un forte voto di protesta tanto contro le politiche economiche dell’ultimo Bush quanto (e soprattutto) contro le politiche sociali dell’amministrazione Obama. Sotto un profilo ideologico, il Tea Party ha – se vogliamo – rappresentato un Libertarianism spostato marcatamente a destra, all’insegna di forti campagne populiste (supportate comunque da buone strategie di comunicazione).
Ora, se è vero che questo astuto mix di propaganda e comunicazione è risultato particolarmente efficace per ottenere un’ottima visibilità (soprattutto all’inizio), è altresì indubbio che l’eccessiva tendenza ad incamerare solo ed esclusivamente il voto di protesta ha reso il Tea Party sostanzialmente incapace di agire: incapace di avere ad oggi un programma credibile e (cosa ancora più importante) di saperlo realizzare. La pessima figura rimediata nel 2013 sul Fiscal Cliff è d’altronde abbastanza esemplificativa.
Il punto nodale della questione è allora il seguente. Sono tre anni che Rand Paul (e quindi il Tea Party) vince la CPAC. Ora, che nel pieno del secondo mandato di Obama sul fronte repubblicano potesse prevalere il voto di protesta è anche comprensibile. Il problema sorge però oggi, nel 2015. Il fatto che in questo momento il Tea Party sembri essere così forte, deve forse indurci a ritenere che sia il mezzo con cui il GOP abbia intenzione di correre per la Casa Bianca? Se così fosse, significherebbe che in questi otto anni il Partito Repubblicano non sia stato capace di mettere in cantiere qualcosa di effettivamente innovativo che vada al di là dell’ “usato garantito” (il neoconservatorismo dei Bush) o della sterile protesta di piazza (il Tea Party stesso, per l’appunto).
Tanto più che, se una struttura profondamente decentrata e assai poco strutturata può magari anche rivelarsi vincente in competizioni elettorali come il Midterm, la conquista della Casa Bianca è indubbiamente un’altra cosa. Organizzazione, ideologia coerente, raccolta fondi, strategie precise: tutto quello che il Tea Party ad oggi non sembra minimamente avere. Il rischio per i repubblicani è allora quello di ritrovarsi compattati dietro ad un pasticcio di populismo isterico, in grado di consegnare ai rivali democratici per la terza volta consecutiva le chiavi dello Studio Ovale.
E’ certamente ancora presto per dire se il Tea Party (in particolare nella figura di Rand Paul) sia effettivamente prossimo ad una corsa per la presidenza. La sfida interna al GOP è appena cominciata. E la strada per i vari candidati si preannuncia già in salita. Come Jeb Bush nel corso della CPAC ha avuto, per esempio, qualche difficoltà nello scrollarsi di dosso l’immagine di uomo dell’establishment e troppo a sinistra (è stato infatti duramente criticato per le sue posizioni in tema di immigrazione), così anche Rand ha dovuto difendersi (ancora una volta) dalle accuse di isolazionismo.
Il rischio per il GOP è dunque di perdersi in una logorante dialettica interna che lo porti in extremis a proporre una coppia di candidati troppo eterogenea e poco amalgamata (si pensi al tandem Romney-Ryan nel 2012). Il Partito Repubblicano del 2016 ha bisogno come non mai di trovare un’identità nuova, forte, decisa. Possibilmente in una figura energica che possa fungere da sintesi tra quelle che sono le sue innumerevoli (e litigiose) correnti. Occorrerebbe una rifondazione carismatica, politica ed ideologica della compagine.
Il problema è che, per quanto si aguzzi la vista alla ricerca di un Ronald Reagan, l’unica figura che compare ineluttabilmente all’orizzonte resta ad oggi quella di Sarah Palin.
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