Filosofia

La tristezza, questa sconosciuta – La Posta del Cigno Nero

4 Settembre 2020

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Caro Cigno Nero,
Ci sono due modi diversi di vivere la tristezza. Ci sono persone che quando sono tristi te le stringi al petto per condividere quella tristezza e persone che la loro tristezza te la scaraventano addosso e ti impongono di soffrirla. Quello che mi chiedo è: come comportarsi con questi due modi in cui la tristezza può apparire? Mi chiedo anche se la mia visione della tristezza sia limitata per una mia mancanza di sensibilità. Ci sono altri modi in cui la tristezza può prendere forma? Ci sono filosofi che hanno affrontato questo stato d’animo sempre attuale e mai obsoleto? La tristezza, questa sconosciuta.


 Salvatore Costante

 

Caro Salvatore,
Tra le cose che ci fanno più paura, un posto d’onore è riservato alla tristezza. Non appena fa capolino nella nostra vita ci adoperiamo in tutti i modi per allontanarla da noi: fuggiamo con la mente o con il corpo in altri luoghi per “non pensarci”, nonostante Seneca ci abbia messo in guardia dal cambiare cielo se l’animo resta inquieto, poiché ci porteremmo in giro la nostra tristezza; oppure iniziamo a cercarne i motivi all’esterno, in qualcuno o qualcosa. Siamo così impegnati a tenerla a distanza che ci resta estranea. Non ci diamo mai la possibilità di conoscerla, e quindi di conoscerci anche attraverso essa.
Spinoza aveva tutt’altra idea di questa emozione. Per lui quando siamo tristi significa che non ci siamo sforzati abbastanza di essere felici, cioè di perseverare nella nostra condizione naturale che è quella della Gioia. Questo sforzo, che ci toglie da uno stato di passività di mente e corpo, lo chiama Conatus. Gioia e Tristezza non sono quindi separate, ma gli estremi che indicano una necessità, quella non di sopravvivere ma di continuare a vivere pienamente, che non significa sforzarsi di essere felici nonostante tutto, ma non arrendersi alla tristezza e andare invece alla ricerca delle cause che l’hanno generata. Perché è dalla conoscenza che deriva la Gioia.
Quando incontriamo la tristezza di qualcuno c’è di mezzo l’empatia, che riguarda un po’ tutte le sfumature del sentire, ma pare funzionare decisamente meglio con la tristezza più che con la gioia.
L’empatia è, come ci ricorda Edith Stein, rendersi conto dello stato d’animo dell’altro.
Come accade quando siamo noi ad essere tristi, anche la tristezza dell’altro può apparire come un nemico che mette in pericolo la nostra serenità, perché temiamo di intristirci a nostra volta. Ma in una forma “sana” di empatia possiamo essere contagiati senza infettarci. La tristezza dell’altro non potrà mai diventare la nostra, come è improbabile che iniziamo a soffrire di allucinazioni entrando in contatto con chi ne soffre, perché, anche quando ci immedesimiamo sinceramente nell’altro, tra noi ci sarà sempre una “identificazione imperfetta”. E tutte le tristezze che ci permettono di conoscerci e riconoscerci sono quelle per cui vale la pena correre il rischio di contagiarsi. A patto di ricordare a noi stessi quanta delicatezza può esserci in una identificazione imperfetta.
Le tristezze non sono tutte uguali, raccontano storie diverse, uniche, anche quando usano parole simili. E non si esprimono allo stesso modo: ci sono quelle discrete che sembrano arrivare in punta di piedi e ci fanno venire voglia di abbracciarci; quelle urlate che chiedono a gran voce di essere capite; quelle logorroiche, teatrali ed egocentriche, sempre in cerca di pubblico; e poi ci sono quelle sublimate, che decorano quel Conatus come farebbe un artista, e quindi feconde, generative come solo il dolore sa essere.
Ogni tristezza, se ha ragione Spinoza, ci chiede di essere compresa, nel senso di capita ma anche, e forse prima ancora, di essere presa con noi, custodita, perché la dimensione intima è quella da cui proviene, che si tratti di noi o degli altri.

E se la tristezza, per non restare sconosciuta, avesse bisogno di una domanda più che di un imperativo? Se invece del solito “Non essere triste!”, che può venirci naturale di fronte a chi ci impone la sua tristezza, chiedessimo e ci chiedessimo: “Perché sei triste?”

Maria Luisa Petruccelli

 

 

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Ph: Nico di Cesare
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