Filosofia

La società resiste, e dunque esiste

7 Gennaio 2024

La società esiste di Giorgia Serughetti è un libro «caldo».

La parola su cui lavora  Giorgia Serughetti in questo libro è «intersezionalità».

Il termine proposto nel 1989 dall’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw (una selezione dei suoi scritti utile per approfondire è questa; in italiano non c’è una versione anche minima dei suoi scritti. Perché?) descrive la sovrapposizione (o “intersezione”) di diverse identità sociali e le relative possibili particolari discriminazioni, oppressioni, o dominazioni.

È una parola che indica un criterio: collegare le lotte contro le disuguaglianze sociali all’impegno per l’ambiente, alla battaglia antirazzista e alle istanze del femminismo. Il tutto attraverso una rete d’iniziative dal basso, capaci di porsi in termini conflittuali rispetto all’«ordine sociale vigente».

Giorgia Serughetti considera che questo passaggio sia importante, proprio per non trasformare una parola nel suo mito e, dunque, premunirsi rispetto alla edificazione di un «credo».

Perché?

Perché ritiene che solo in forza di una visione si potrà sfidare radicalmente e frontalmente il paradigma culturale dominante da almeno un quarantennio.

L’avversario da battere è il paradigma neoliberista, quello segnato politicamente dalla riscossa di destra e ancora oggi della sua lunga egemonia, inaugurata con l’avvento di Margaret Thatcher e poi dalla presidenza di Ronald Reagan (1980-1988) il cui slogan era “la società non esiste, esiste l’individuo”.

Questo spiega il perché del titolo del libro di Giorgia Serughetti che non casualmente

riprende il profilo percorso che ha fatto riflettere Zygmunt Bauman nel suo Un mondo fuori asse intorno ai nuovi percorsi di diseguaglianza, la condizione di precarietà individuale e collettiva che caratterizza il nostro tempo.

Come cambiare parametro?

A partire da una prima constatazione ovvero il fatto che la pandemia, e già prima la crisi economica del 2007-2008, hanno incrinato il paradigma neoliberista anche se non ha distrutto il suo nucleo di «razionalità».

È il dato che Serughetti osserva  che se il discorso neoliberista si è sostenuto “tanto sulla retorica della libertà individuale, quanto sulla promessa di protezione degli individui performanti, impegnati a valorizzare se stessi come «capitale umano» , dalla minaccia di gruppi, soggetti, culture estranee alla normatività imperniata sul fare impresa da sé, [p. 33] quelle due crisi e la somma dei colpi che hanno impresso, obbligano a recedere e a reintrodurre, con molti salti mortali – per non dimostrare l’incoerenza, la contraddizione e, alla fine la crisi del proprio «credo» – alcune fette di intervento statale per compensare i vuoti e per sanare le ferite che quelle due esperienze hanno lasciato.

L’effetto è il ritorno «del rimosso», uno «Stato sociale» che porta con sé categorie che sembravano cancellate o considerate memoria di un passato ingombrante e «malato» come: «classe», «solidarietà», «giustizia sociale». Ovvero appunto che la società esiste.

Ma per consentire questo passaggio – tutt’altro che marginale, peraltro – ecco che occorre recuperare quella suggestione proposta trent’anni fa da Kimberlé Crenshaw.

Perché una politica e anche una battaglia sociale fondata è prevalentemente sull’identità e sul proprio paradigma identitario, come scrive Asad Haider: “riduce la politica a ciò che si è come individui e all’ottenimento del riconoscimento come individui, piuttosto che un’appartenenza a una collettività e a una lotta collettiva contro una struttura sociale oppressiva”.

Il che implica che la propria lotta, anche quando si sostiene come risposta alle sfide che riguardano quel soggetto in prima persona, si può vincere, o almeno può tentare di replicare se, contemporaneamente, si adotta una linea che chiama in causa non solo il proprio dato corporativo, o la soddisfazione della propria piattaforma identitaria, ma se suscita una riflessione sul destino di tutti e dunque se esce oltre i confini del «proprio giardino».

È, per esempio, la riflessione che Serughetti propone sulla lotta alla ex Gkn di Firenze [p.115 e sgg.] che va vista non solo come un’esperienza di resistenza, ma anche come un processo di educazione e di riflessione sulle sfide culturali, sociali, politiche nel tempo presente.

Qualcosa che richiama a suo modo quel processo di riflessione che un secolo fa, tra anni ’10 e anni ’20 vede il tema della esperienza dei consigli come strumento per ripensare il rapporto tra classe generale, tra mondo dei subalterni e la politica come momento della formazione.

Un processo che teneva presente le condizioni specifiche dei soggetti e, contemporaneamente, si interrogava anche su dare un volto nuovo alla qualità della vita di tutti.

Non è la stessa ricetta, ma la sfida è analoga: assumere le inquietudini del proprio tempo, e provare con creatività a dare risposte storte. Meglio «oblique».

 

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