Filosofia
La riconsiderazione dell’Essere rispetto alla morte
Baricco in un recente articolo pubblicato su “La Repubblica” si è posto il problema del come ci organizzeremo dopo che avremo superato il contagio.
Ha parlato di una necessaria audacia che dovrà pervadere la nostra azione in ogni ambito, familiare, lavorativo, professionale, di relazione con gli altri.
Ma si pone una preliminare questione: non ancora abbiamo fatto i conti con la nostra paura; questa volta è la paura di morire, che porta alla tutela del nostro istinto di autoconservazione.
È la paura più penetrante, incisiva, che scava dentro, provoca l’angoscia, perché non abbiamo nessuna soluzione al contagio ed alla morte che può determinarsi.
Martin Heidegger ci ha insegnato la gettatezza -Dasein – dell’Essere.
Siamo gettati nel mondo quando nasciamo e ci organizziamo con un progetto contro la morte.
L’uomo vive all’insegna di un’evoluzione permanente; dire che l’uomo esiste non può significare che egli sia qualcosa di dato, perché quello che egli ha di specifico e che lo distingue dalle cose è proprio il fatto di rapportarsi a delle possibilità. Il termine esistenza va inteso in senso etimologico di ex-sistere, oltrepassare, porsi in direzione della possibilità, ci ricorda Gianni Vattimo, studioso di Heidegger.
Non si può applicare all’uomo la semplice presenza, ma un poter essere, possibile per il futuro. L’Essere uomo deve dunque vivere in modo autentico, il che significa appropriarsi delle cose che il mondo mette a disposizione, per rendere attuabile il suo progetto di vita. Deve sentire la voce della sua coscienza, che lo chiama per cogliere il senso di libertà dalla morte. Cambia il dispositivo del rapporto con gli altri, si scrive una nuova grammatica del coesistere, dell’Esserci. La passione per la ricerca del bene è la risposta alla consapevolezza che nessuno vive al singolare.
Ebbene di fronte all’imprevedibilità di non poter nulla contro il virus e di essere dunque permeabili, comporta che il nostro sia un essere poroso, esposto, frantumato, periclitante.
L’evento morte fa parte della vita, e questa feroce ed atroce consapevolezza non vuole entrare nella nostra mente, soprattutto se si è giovani, se riflettiamo sulla nostra caducità, cedevolezza, persistente ed accentuata debolezza rispetto all’ignoto.
Le nostre giornate vivono e percepiscono la bruttura del silenzio, gelido, freddo, spettrale in un’immensa quiete celeste che fa girare il cielo e la terra nella sua macina, ma senza nessun rumore udibile, ha scritto Kamel Daoud. Le stelle sono dure, pare che sia sempre notte. Sentiamo l’abisso del fondo delle cose, prospettiamo nell’incertezza pervasiva la lontananza della normalità della vita, la dimenticanza imbarazzante dell’amore, che non possiamo banalmente coltivare, come non poter dare acqua ad un fiore.
Vi è dunque un’altra necessità che si pone ed attiene alla riconsiderazione dell’essere.
Il trauma e l’angoscia di morire ci consente di misurare il valore delle cose, dei nostri affetti, del nostro tempo.
1-Dobbiamo capire in questa endemica emergenza che l’accumulo di ricchezze è superfluo. Accaparriamo roba, cose, compriamo in abbondanza, ma dobbiamo inevitabilmente valutare che il tempo per godere di quelle cose non c’è, non può più esserci. Possiamo trovarci in un ospedale a combattere contro la morte ed essere soli, con noi stessi e morire senza abbracciare nessuno, senza poter vedere in faccia chi abbiamo amato.
2- Dobbiamo concepire che vivere nella solidarietà sia necessario, anche se non possiamo toccarci o abbracciarci, perché diventa una dimensione indispensabile contro la solitudine dell’anima e del coatto isolamento.
3-Dobbiamo rivedere il valore del tempo, che non può più essere impiegato per il solo lavoro, ma anche per la cura dei nostri fragili affetti, cura necessaria per la rimozione dell’horror vacui, di un futuro che potrebbe portarci via quello che abbiamo costruito per noi e per i nostri figli.
4-Dobbiamo reimpostare la nostra giornata e mettere in relazione, ora che incombe la paura della morte, la nostra esistenza con quella degli altri, nel lavoro, professione, amicizia, affetti familiari, anche aiutandoci con il progresso della rivoluzione digitale che ha ridotto le distanze e consente anche una vicinanza virtuale, vedendoci senza che ci possiamo toccare e salutare con un autentico abbraccio.
Questa è l’audacia: la rivisitazione della nostra vita, una diversa impostazione e riconsiderazione dell’Essere, che abbatta l’ignoto ed allontani l’eterna notte.
Siamo soli: è la malinconia di questi tempi che dobbiamo superare.
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