Filosofia

La paura e la preghiera

14 Marzo 2020

Non sappiamo come finirà.
Sembra incredibile, ma la scienza non ancora ha trovato la soluzione.
La natura matrigna ha generato questo virus che ha messo al tappeto tutto e tutti.
Il mondo ha paura di morire, di soffrire, della fame, di perdere quel che abbiamo, di ammalarci, di invecchiare, di essere contagiati.
La paura è angoscia.
Siamo vulnerabili, «un vaso che può andare in frantumi ad ogni scossa», come ammoniva Seneca.
La nostra è una condizione di fragilità costitutiva, uno stato potenziale che evoca la permanenza di una precarietà.
Vulnus significa ferita e l’uomo senza protezione è esposto ad essere ferito, fagocitato.
Il nostro Essere è poroso, assorbe la realtà che lo circonda, è esposto a tutti gli eventi che possono nuocere.
Viviamo il presente in modo periclitante, sommersi dall’inquietudine, dalla condizione perenne di non poter evitare l’incertezza del futuro.
Siamo come farfalle sfuggenti e aggraziate, delicatissimi con le nostre malattie, sofferenze pietose sempre in agguato.
Levinas ci dice che la realtà è una montagna insormontabile, indifferente alle nostre tensioni: siamo annodati al tessuto delle cose, dentro un recinto le cui dimensioni sono incontrollabili e caduche.
La paura porta avvilimento,una condizione psicologica di disorientamento  ed insicurezza: prevale la forte ed irrefutabile sensazione di non farcela,di non debellare il male.
La paura ci inchioda, si piega al tempo, si incrina ogni aspettativa di uscire dall’oscurità del tunnel.

Sembra sempre notte, perché forte è la percezione di un’insufficienza di ogni strategia risolutiva.
Subentra l’ignoto, la forte ed irriducibile condizione comportamentale di cadere nella solitudine, di subire il contagio e non farcela, annichilirci.
E si invoca la preghiera.
Laddove c’è l’esperienza del dolore, il salire incessante della paura, cresce il desiderio di qualcosa che oltrepassi il contingente e ci porti alla ricerca di Dio, dell’Infinito.

La mancanza che cogliamo in noi non può essere colmata, se non trascendendo la nostra scarsa ed irrisoria dimensione caduca, labile, evanescente.
Perché siamo piccoli, incapaci, abbiamo bisogno di superare la disperazione, organizzare dare linfa alla speranza, pregare, sentire il respiro che accompagna la nostra invocazione, che ci porti fuori dal fluire di questo tempo e ci metta in contemplazione con l’Assoluto.

La speranza è una pianta strana, ha radici in cielo; se la sradichi da lì per trapiantarla in terra, muore. Per trovare fondatezza, la speranza deve aprirsi all’irruzione d’un fattore straordinario, sovrastante, celeste.
E la preghiera è l’anelito di una salvazione sperata e voluta, la ricerca della voce possibile di Dio, l’unica àncora possibile, cui legare la nostra vita fragile e frantumata.
Forse è così, anche per chi non crede, perché l’uomo è solo.

(La foto è per gentile concessione di Antonietta Di Lorenzo)

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