Filosofia
La gioia del pensare separa
Davide Miccione, Quando abbiamo smesso di pensare. Scritti di fenomenologia dell’emergenza (2020-2023), Transeuropa, Massa 2024
Prima di parlare di Quando abbiamo smesso di pensare vi invito a partire da un’avvertenza preliminare sulla lettura di questo saggio. Il volume di Miccione si inscrive nella diplopia teoretico-esistenziale tra il nostro vissuto e il pensare generando una lacerazione, un varco che si richiude subito dietro di noi e, se non stiamo attenti, ci lascia in un pericoloso intermezzo tra il vuoto originato dalle nostre opinioni appena abbandonate e i pensieri invenienti prodotti dal libro.
Se decideremo di superare l’atrio dello scritto ed entrare nell’emergenza filosofica predisposta nel lavoro, ci troveremo dinanzi a un’apertura costituita da balze e da paradossi, ricca di sviamenti interrotti da lampi concettuali. Per proseguire la lettura dovremo essere viventi nel nostro tempo e, contemporaneamente, pensanti in un cortocircuito intellettuale che ci lascerà in preda a una risacca feconda di problematizzazioni. Avremo bisogno di un’anima viandante e di tanti bagagli da disfare uno a uno, minuziosamente, per rifarli daccapo con nuove agnizioni, sacrificando tanti costrutti calcificati in noi. Se saremo pronti a smarrirci, a dissipare risorse mentali con rigore e spirito lieto, questo libro ci riguarderà.
In Quando abbiamo smesso di pensare, Davide Miccione prosegue una combattimento filosofico, lungo ormai almeno due decenni, una partita a scacchi con la morte del pensiero alla quale non intende rassegnarsi e che ci consegna come bagliori, lampi di idee, luci nella notte. Nel narrarci dei nostri lidi rassicuranti, le nostre manie, i nostri stili di vita, di cultura, di informazione, di educazione, l’autore, il quale è anche esperto di pratiche filosofiche, ci porta sempre davanti al limite, al crepaccio nel quale sarebbe salutare cadere una buona volta.
Il tonfo nell’abisso del pensare rappresenta l’imprevisto del nostro vivere e ragionare nel consesso umano in qualità di singoli “iperconnessi” nella rete, nelle relazioni, nelle opinioni. A tale proposito l’autore annota (e noi incassiamo):
“Nessuna nuova scoperta: filosofia, conoscenza e gusto della storia, letteratura, dialogo, parresia (….) sono sempre lì ad attenderci. Il problema è frequentarli, tra una notifica e l’altra”. (Ibidem, p. 22).
Scorrendo i capitoli del libro ci imbattiamo nella landa della nostra attualità che, come Miccione stesso richiama in tante fogge, coincide con il trionfo dell’eterno presente (Ibidem, cap. XX) nel quale coesistono ospiti conviviali come: Il gregarismo, il complottismo, l’infodemia, il biomaccartismo, l’emergentismo pandemico (al quale le riflessioni del libro si ispirano), la depressione diffusa, l’ecologismo, la cultura woke, la cancel culture, il politically correct, l’iperconnessione mediatica; su tutte, nondimeno, risalta la regina indiscussa dei nostri tempi rappresentata dall’inclusività, espressione asfittica dell’unanimismo contemporaneo che spegne sul nascere ogni spirito di contraddizione.
Il nodo della congiura moderna, per richiamare il suggestivo titolo di un altro saggio del nostro continuazione ideale di questi ragionamenti (cfr. D. Miccione, La congiura degli ignoranti, Valore Italiano editore 2024), si dispone sul crinale dell’accordo ad ogni costo, della coesistenza degli opposti, purché nel cozzare non eliminino la possibilità dell’altro o, ancora più marcatamente, possano farlo rientrare nei limiti sociali preposti; opportunamente Miccione esemplifica questa disposizione sulla puntura del vaccino anti covid che riporta il soggetto smarrito nell’alveo dell’obliterazione sociale.
Uguaglianza, uniformità, bon sens sono le nostre parole d’ordine per innocui dibattiti senza un segno distintivo, una marcatura; in fondo il sovrano dei nostri tempi regna come non-pensiero accogliente che si dirama partendo da una cornice teorica preallestita mentre sullo sfondo rimane un umanesimo tecnocratico soft ma massimamente pervasivo; in esso si dibatte la nostra libertà personale sottoposta a una rigida griglia di valori condivisi, accettati a priori come una seconda pelle.
Miccione, eccentrico nel pensare, conclude il suo libro (al quale segue un capitolo finale scritto a quattro mani con Biuso) con queste parole:
“A fronte di tutto ciò il primo passo sarebbe riconoscere il nostro diritto ad essere esclusi, a poter restare esclusi; il secondo passo quello di progettare un’esemplarità, una pratica esistenziale e politica che valga la pena di mostrare e proporre”. (Ibidem, p. 137) .
L’inceppo, rappresentato dal pensiero di Miccione, urta la compatta e glaciale unanimità producendo incrinature, operando scelte, separazioni.
Citando un filosofo nelle corde di Miccione, del quale l’autore ha curato un volume collettaneo di invito all’opera, il distacco è infatti la gioia del pensare; vi riecheggia Spinoza- e in parte Nietzsche- e il prezioso concetto di pax filosofica:
“La gioia separa. Al di là di essa si percepisce il mondo sulfureo, il mondo dei più, di quelli che ridono. Chi si è elevato alla gioia li lascia al loro destino” (Manlio Sgalambro, La conoscenza del peggio, Adelphi, Milano 2007, p. 108).
Con arguzia, ironia, profondità e una prosa limpida, il libro di Miccione ci porta nelle fratture, nei nodi, nelle resistenze della filosofia ad ogni armonia prestabilita e, in definitiva, lontani dall’algida tolleranza sub condicione post-contemporanea che non riesce ad accogliere l’eccezione senza renderla innocua e prevedibile per poi neutralizzarla in un abbraccio asfittico, gioviale, astorico, disinfettato da ogni traccia spuria del genio. La gioia del pensare separa per trascegliere proprio quel genio. Quando abbiamo smesso di pensare lo fa rivivere nel colombario di Madonna filosofia.
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