Filosofia
Episodi di ordinaria sciatteria: ma CHE GUSTO C’È A LAVORARE MALE?
Primo atto: Domenica sera mi trovo in una pizzeria a Colonia per ordinare tre pizze da asporto. La pizzeria in questione è gestita da tedeschi ma mi era stata raccomandata da un amico italiano. Come sempre quando sono all’estero prima di ordinare mi sono sincerato che il formaggio usato fosse mozzarella e non quella colla disgustosa che gli americani chiamano cheese e i tedeschi Käse. La proprietaria mi ha rassicurato dicendo che loro usano solo mozzarella. Dopo un attimo di esitazione ha però aggiunto che normalmente impiegano mozzarella fiordilatte DOP, ma che questa settimana avevano dovuto ripiegare su un’altra marca perché il fornitore in Italia aveva mancato la consegna e non si era più fatto sentire. “Sa com’è…” mi ha detto “purtroppo capita sempre così.. a ridosso delle feste, o dei weekend lunghi, a volte non consegnano. È irritante perché non dicono neanche quando arriverà la consegna, così non sappiamo per quanto tempo dovremo usare la mozzarella meno pregiata e scusarci con i clienti”.
Secondo atto: Come molti papà, anch’io la sera leggo una fiaba a mio figlio prima di andare a letto. La mia vita nomadica fa sì che i libri di fiabe in casa nostra siano in tre lingue: italiano, tedesco e inglese. Qualche sera fa ho pescato un libro in Italiano e giunto a pagina tre mi sono imbattuto nella seguente frase: “le foche amavano prendere in giro i tentativi degli orsi del cibo” (sic). Ho integrato con la locuzione mancante (“di procurarsi”) e sono passato ad un altro libro, nel quale l’asinello protagonista a un certo punto si domanda “…che cosa ccadrà?” (sic). Irritato ho pescato un terzo libro, sempre in Italiano, e ho trovato ben due congiuntivi sbagliati. A quel punto non ho resistito e ho ripiegato su un libro in Inglese, in cui se non altro la grammatica notoriamente complessa della prosa per l’infanzia viene rispettata.
Terzo atto: Mi scrive (con un mese di ritardo) un collega Italiano a cui ho chiesto di fare una peer-review per un articolo scientifico. Testo del messaggio: “L’articolo va bene così, magari dica all’autore di ricontrollare le note.” Punto.
Quarto atto: Tento di ordinare via Internet da un rivenditore Italiano un libro usato attraverso una piattaforma ben nota e affidabile. Dopo più di tre settimane dall’invio dell’ordine il libro non si palesa. Allora scrivo una mail chiedendo delucidazioni. Dopo un’altra settimana ricevo in risposta delle scuse e un rimborso. Grazie, anche se avrei preferito il libro.
Agatha Christie diceva che un indizio è soltanto un indizio, due sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova. Quattro poi ti inducono a farti delle domande fondamentali. Il denominatore comune delle mie quattro disavventure è, ovviamente, l’Italia, Paese del quale sono orgoglioso per tutto quello che mi ha dato, ma rispetto al quale cresce in me come in molti una preoccupazione profonda.
Se arrivati a questo punto della lettura state per cliccare altrove pensando: vetera vaticinamini, caro Staiti, vi prego di aspettare un momento e di porvi la stessa banalissima domanda che mi si è imposta arrivato all’indizio numero quattro: ma che gusto c’è a lavorare male?
Non è una reprimenda moralistica, ma una domanda da farsi sinceramente, che si potrebbe anche formulare così: in fondo, perché lavoriamo?
La prima reazione a questa domanda, che mi è sorta spontanea e un po’ spazientita, è stata grossomodo la seguente: “Facile lamentarsi! Figurati che voglia avresti tu di vendere bene le tue mozzarelle se la metà dei profitti ti venisse risucchiata dalle tasse! E figurati che voglia avresti tu di correggere le bozze di un libro per bambini se per mettere insieme uno stipendio dovessi fare quattro lavori! E che voglia avresti di scrivere decentemente una peer-review se lavorassi da precario per un’Università in bancarotta!” e così via.
A pensarci bene però, questo modo di ragionare è profondamente fuorviante. Suggerisce che si lavora bene (o meglio: si è tenuti a lavorare bene) soltanto a fronte di una remunerazione (salariale, sociale, politica,…) adeguata. Ma questo suggerimento opera un’inversione indebita dei fattori psicologici implicati. È perché lavorare bene è un fine degno di essere perseguito in sé che riteniamo giusto e doveroso ricompensare (in termini di salario, tutela, status sociale, etc.) chi lavora bene. Lavorare bene è un’attività che porta in sé la propria ricompensa intrinseca. Per questo esigiamo per chi lavora bene anche la ricompensa estrinseca della remunerazione. Altrimenti il lavoro diventerebbe un puro e semplice mezzo per il conseguimento di un fine ad esso estrinseco, e qualora questo nesso ‘causale’ non si verificasse (come succede purtroppo in Italia), il lavoro perderebbe ogni valore. Invece è soltanto riconoscendo al lavoro fatto bene (cioè: al lavoro, perché il lavoro fatto male propriamente parlando non è neanche lavoro, nello stesso senso in cui una torta fatta male propriamente parlando non è una torta ma un’accozzaglia di ingredienti) un valore intrinseco che si può poi rivendicare legittimamente il riconoscimento estrinseco che gli si confà. Se il lavoro non ha valore intrinseco e non è ricompensa a se stesso, ogni lotta per regole più giuste e condizioni più adeguate in fondo è priva di fondamento.
Insomma, i Franz Ferdinand cantavano qualche anno fa: It’s always better on holiday, that’s why we only work when we need the money. La canzone è carina e l’album da cui è tratta è ancora meglio, ma questa tesi è profondamente falsa. Lavoriamo perché lavorare è intrinsecamente umano e porta con sé il proprio valore intrinseco, ed è per questo che pretendiamo un salario adeguato e il riposo delle vacanze.
E qui mi permetto di passare a considerare un termine che in Italia è sempre sulla bocca di tutti: meritocrazia. Si tratta di un termine di cui ho subito e subisco il fascino, lavorando in un Paese, gli Stati Uniti, in cui è spesso invocato. Tuttavia, si tratta di un termine potenzialmente fuorviante per le ragioni di cui sopra. Il modo stesso in cui il termine è costruito sembra suggerire una sorta di nesso causale tra i due vocaboli che lo compongono. Il ‘merito’ è causa della ‘crazia’, ovvero, chi fa bene consegue una qualche forma di potere (leggi: riconoscimento, remunerazione, rispetto, influenza, etc.) Di qui il passo è breve a concepire il ‘merito’ come il mezzo di cui la ‘crazia’ sarebbe il fine: lavoro bene in quanto vengo riconosciuto. Ma le cose non stanno così! Di nuovo: il merito è fine in sé e il riconoscimento che ad esso spetta non può essere ragionevolmente interpretato come un incentivo, ma soltanto come un segno (assolutamente dovuto) che chi persegue fini degni di essere perseguiti è un bene per la società intera. Chi ha perso di vista la semplice evidenza che lavorare bene (cioè: lavorare) è un fine in sé non la riconquisterà se gli alzi lo stipendio o lo assumi a tempo indeterminato. Al contrario, è proprio perché lavorare bene (cioè: lavorare) è un fine in sé che occorre lottare per stipendi degni e contratti giusti.
Visto che è quasi Natale mi permetto di concludere con qualche battuta a sfondo religioso. Nella tradizione Cristiana (ma non solo), l’uomo lavora al cospetto di Dio. In questo, il Dio cristiano non è soltanto il guardone descritto da Sartre, pronto a scrutarti accigliato mentre pecchi nel segreto della tua stanza. È anche e soprattutto il padre che sbircia benevolo dalla porta della camera socchiusa e, vedendo il figlio impegnato a fare i compiti, se ne rallegra. Tuttavia questo rallegrarsi non rende estrinseco il valore del lavoro, come se il Cristiano lavorasse (bene) affinché Dio si rallegri. Beninteso, non tutti i Cristiani lavorano (bene), così come non tutti i bambini fanno (bene) i compiti. Tuttavia l’idea del Dio che si rallegra offre una costante remunerazione estrinseca a suggello del valore intrinseco del lavoro compiuto, così come il rallegrarsi del padre aiuta il figlio a rendersi conto che fare (bene) i compiti ha valore in sé. Guai se il figlio arrivasse a pensare che il valore dei compiti consiste nel rallegrarsi del padre!
In ogni caso, credenti o non credenti, prima e più profondamente che al cospetto di un altro (con la “a” maiuscola o minuscola) ciascuno di noi lavora sempre e comunque al cospetto di se stesso. Occorre non dimenticarsene. E imparare a riassaporare il gusto, che niente e nessuno ci può togliere, di fare bene il proprio lavoro, semplicemente perché lavorare bene porta con sé la propria ricompensa, in qualunque condizione socio-politica questo accada.
In una delle sue pagine più memorabili Kant sostiene che l’uomo virtuoso non è colui che agisce per ottenere la propria felicità ma per rendersi degno di essa. Vorrei suggerire qualcosa di simile per il lavoro: non lavoriamo bene per ottenere un riconoscimento, ma per renderci degni di esso, così che, se il riconoscimento non arriva, abbiamo almeno una ragione forte, inoppugnabile per richiamare chi ce lo deve alle proprie responsabilità.
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