Filosofia

La disobbendienza è un atto di fedeltà

28 Aprile 2015

La disobbedienza non è un atteggiamento. È una risposta. In molti casi non è un progetto e  non corrisponde a un’ideologia. È una dichiarazione di fedeltà a un principio cui si ritiene impossibile venire meno. Non ha niente di rivoluzionario, ma è fortemente anticonformista.

La forza dell’atto disobbedienza  sta qui. Qui sta anche il suo essere uno “scandalo”: non adeguandosi alla morale del proprio tempo, l’atto di disobbedienza dice che non si è disposti a stare al passo con i tempi.

Ciò può accadere in due modi: collocandosi più avanti, oppure scegliendo di essere fedeli a quello che si ritiene il principio fondativo della propria società cui improvvisamente si è venuti meno.

Alla radice della prima ipotesi sta Rousseau. “Determinato a passare nell’indipendenza e nella povertà il poco tempo che mi restava da vivere – scrive ne Le confessioni – applicai tutte le forze del mio animo a spezzare i ceppi dell’opinione pubblica e a fare con coraggio tutto quel che mi sembrava giusto, senza curarmi del giudizio degli uomini”.

A rafforzare questa scelta ripete in Rousseau giudice di Jean –Jacques, parlando di sé in terza persona, “Ha voluto consultar sempre la loro coscienza per correggere gli errori della loro origine e ascoltare nel silenzio delle passioni quella voce interiore che tutti i nostri filosofi tengono tanto a soffocare e che definiscono una chimera”. Difficilmente si potrebbe avere una dimensione più radicalmente dichiarata della disobbedienza.

La disobbedienza, tuttavia, è anche molto meno pur non perdendo niente della sua radicalità. Eyal Press nel suo Anime Belle (Einaudi) lo ricorda ripercorrendo quattro storie diverse.

Un capitano della polizia svizzera, Paul Grüniger che salva, nel senso che non rimanda indietro nell’Austria nazificata, degli ebrei in fuga, dando loro una reale chance di vita. Un poliziotto che per questo pagherà carissimo: l’espulsione, una vita successiva di stenti fino al 1972 (anno della morte) una sostanziale solitudine.

Un serbo, Aleksander Jevtić, che a Vukovar salva molti croati facendoli passare serbi senza poi rivendicare un diritto acquisito.

Un israeliano, Avner Wishnitzer, che rifiuta di prestare servizio militare nei territori occupati, che sente di scegliere con la stessa coerenza con cui ha servito in un’unità speciale nell’esercito. Un atto che lo colloca in conflitto con il senso comune del suo paese, ma che rifiuta di abbandonare, perché la sua scelta non è contro il suo paese, ma fondata sulle regole del suo paese.

Una cittadina degli Stati Uniti, Leyla Wydler, la cui storia ripercorre quella che Julia Roberts propone in Erin Brockovich e che ha a cuore il rapporto di fioducia tra cittadini e che non può essere distrutto dai “furbi”. Il suo fondamento è che la convivenza è un contratto e quel contatto deve essre onorato.

Che cosa hanno in comune tutte queste storie per cui vale la pena leggerle?

Non l’eroismo che connota le loro scelte, ma il fatto che ciascuno di loro ha preso sul serio i fondamenti su cui si reggono le società che criticano radicalmente ma di cui si sentono parte integrante,  cui non vogliono assolutamente rinunciare, anche se la maggioranza dell’opinione pubblica li guarda come traditori.

Il loro problema non è che ignoravano o ignorano i valori e gli ideali della società in cui vivono e in cui vogliono continuare a viver e sentirsi parte, ma che considerano quei valori e quei principi come inviolabili e dunque come non contrattabili. Ciò che criticano è un atteggiamento di maggioranza che rischia di trasformate quei valori da “assoluti” a “discreti”.

Lì nasce il diritto alla disobbedienza, che non è il venir meno a un patto, ma il modo di richiamare l’attenzione sui punti di incertezza che la vita quotidiana o il senso comune rischia di lederne la solidità e la saldezza. In altre parole disobbedisce chi prende sul serio i principi su cui si regge il patto di convivenza sociale che sottoscrive e fa di tutto per conservarli.

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