Filosofia

Insegnare filosofia: Personalità e storicità

20 Giugno 2023

                             Insegnare filosofia. Personalità e storicità*

Il mio professore di filosofia del liceo si chiamava Tommaso Capirci, del liceo Classico di Latina, era cieco ed era ormai ultrasessantenne quando entrò nella nostra classe di prima liceo, per uscirne, in direzione della pensione, al termine della seconda. Alcuni anni dopo, quando io ero ormai studente universitario, pubblicò un libro di memorie della sua vita di insegnante. Alcune citazioni tratte da questo volumetto mi permetteranno di rappresentare sinteticamente l’immagine di insegnante che ha costituito, per me, a lungo un ideale di riferimento.

Cominciavo l’insegnamento della filosofia con una battuta: “La filosofia è quella cosa con la quale e senza la quale si rimane tale e quale.”La battuta significava che la filosofia a fini pratici della ricchezza e del potere non serve, perché soddisfa un bisogno naturale e fondamentale di sapere, capire, di rendersi conto della realtà e della vita. C’è chi ama la gloria, l’arte, lo sport e chi ama non fermarsi alla superficie, all’apparenza, ma cogliere l’essenza. Il sapere per i filosofi è il supremo valore. La filosofia però non esiste. Esistono i filosofi, che sono diversi tra loro, anzi contrastan-ti. (….) La filosofia è ricerca infinita, sia per quel che riguarda il singolo filosofo, che per tutti i filosofi dal VII secolo avanti Cristo fino a chissà quando. (…) Spiegando il pensiero di un filosofo, dimostravo con esempi pratici la credibilità delle sue concezioni. Gli alunni si convincevano ma poi, spiegando il successivo filosofo che criticava il precedente, portavo argomenti a suo favore, e anche questi sembravano convincenti. Così capivano che chi viene dopo riesce a cogliere qualche aspetto che era sfuggito al precedente, e così di seguito, senza che la verità assoluta possa mai essere raggiunta

Le frasi da me evidenziate rilevano quale sia il significato che il mio insegnate attribuiva alla filosofia, e quale, a suo avviso, l’identità di questa disciplina:

• La filosofia è risposta al bisogno di sapere, non è volta a “fini pratici” (teoreticità)
• La filosofia non esiste, esistono i filosofi (personalità)
• La filosofia è ricerca infinita, in un orizzonte in cui la verità assoluta non può mai essere raggiunta. La filosofia ha un carattere di ricerca personale in una prospettiva di storicità aperta. Vi è quindi un’asserzione di antidogmaticità della filosofia, implicita nella dimensione di sforzo e tensione personale.La didattica era molto tradizionale, didattica per concetti in una sequenza storica, molto rilievo dato alla biografia degli autori, presentati secondo i loro tic e le loro peculiarità (la famosa passeggiata di Kant!). In realtà la sequenza di presentazione degli autori rispondeva, più che ad un impianto rigorosamente storico, ad un ritmo ideale, il che probabilmente era il residuo
della temperie culturale neoidealistica in cui il mio professore si era formato. Molta attenzione era data al linguaggio; da una parte c’era l’attenzione all’uso attento della terminologia degli autori, dall’altra la ricerca di un veicolo di comunicazione e di divulgazione del sapere filosofico quanto più possibile vicino al colloquiare quotidiano. A questo proposito interessante è il rilievo da egli fatto all’eccessivo tecnicismo dei manuali scolastici in uso al tempo dell’inizio della propria attività didattica ; tanto da ipotizzare la possibilità di scrivere un testo scolastico: progetto “immane” (“Avrei dovuto leggere tutti i classici per riportare esattamente il pensiero di ogni filosofo con le sue parole”) poi abortito perché “nessuna casa editrice me lo avrebbe pubblicato, in quanto ero un ignoto professorucolo di provincia e non un illustre professore universitario “
Nessun uso dei testi dunque, anzi propriamente l’unico “testo” che noi alunni avevamo sotto mano erano gli appunti del professore. Il manuale, che nel paradigma dell’insegnamento classico della filosofia da De Vecchi in poi (1936) era il centro dell’attività didattica, veniva, di fatto, scavalcato dalla traccia scritta di un insegnamento orale. Forse proprio questo contribuiva in noi allievi a stimolare un ascolto attento ed una trascrizione puntigliosa di quelle lezioni. L’insegnamento era il più tradizionale possibile: lezione, studio casalingo, interrogazione (ovviamente) senza preavviso. Le domande vertevano sulla ricostruzione concettuale degli autori studiati, di cui l’alunno doveva dimostrare di aver compreso i principali nodi tematici le questioni fondamentali e le soluzioni adottate, e di saper ripercorrere le dinamiche essenziali dei loro ragionamenti in connessione con le risposte di altri autori precedenti. Dopo l’interrogazione, il professore non rivelava mai il voto messo; e nel fare la media non usava la rigida media matematica: dunque “severo ma giusto”. Le doti umane e caratteriali, la disponibilità e il tratto empatico nella relazione e nell’ascolto personali, sia pure nella comune coscienza di una distanza e asimmetria di ruoli, definivano una figura di maestro, pur entro la rigida struttura del professore tradizionale. Cosicché le lezioni diventavano possibilità di “fare esperienze filosofiche”, come si direbbe oggi. Ma ciò senza minimamente accennare alla possibilità di un apprendimento orizzontale, laboratoriale. Tutto partiva e ritornava dalla cattedra del professore, e chiedere e domandare a lui era, in certo modo, come chiedere e domandare ai grandi filosofi il senso delle loro questioni e delle loro risposte, e quindi ciò generava la coscienza che quelle domande e risposte interessavano le nostre giovani menti più di quanto non avremmo mai sospettato. Non ho mai vissuto come una diminuzione della mia autonomia la centralità del docente. Anzi proprio il desiderio di apprendere le cose che lui diceva mi comunicava entusiasmo e faceva nascere, per la prima volta in me, il senso della gioia di una autonoma ricerca da avviare.
L’aver vissuto l’esperienza di un incontro con un maestro è qualcosa di prezioso che ha generato in me l’amore per questa disciplina e il desiderio di essere io stesso, a mia volta, trasmettitore di questa passione negli altri, professore di filosofia. Da quell’iniziale esperienza è passato molto tempo, e anche la percezione che ora ho della “filosofia” è mutata da quella che avevo allora: a questo mutamento, oltre alle esperienze personali, ha concorso l’incontro con l’Università “La Sapienza” di Roma e con il modello di approccio alla filosofia prevalente nei professori che là ho trovato. L’identità della disciplina che emergeva dalle lezioni seguite all’università era quella di un sapere solo storico, con un’implicita perdita di fiducia nel valore autonomo della filosofia in quanto ricerca, ancora legittima, di senso e verità. L’approccio ai testi ha coinciso per me con l’abbandono di un’idea di filosofia come ricerca esistenziale, in favore del prevalere di un senso filologico nello studio delle idee, che ne rivelava la radicale contestualità e dipendenza alle diverse realtà storico-sociali entro cui esse erano sorte. Confesso che fu in parte una delusione, e anche ebbe un effetto demotivante.
Nei due anni di SSIS (1999-2001) mi sono dunque, inevitabilmente, interrogato sull’identità dell’insegnante, in base all’identità della disciplina che avrei dovuto insegnare. Per far questo mi sono documentato sull’evoluzione del dibattito passato e presente relativo alla didattica della filosofia, e sui modelli impliciti nelle diverse opzioni.

Ho quindi appreso che i modelli di insegnamento della filosofia nella Scuola italiana, dall’Unità ad oggi sono almeno (e sinteticamente) quattro: quello positivistico, di natura teoretico-sistematica (fino al 1923), quello gentiliano storico-teoretico basato sullo studio dei testi (dal 1923 al 1926), quello storicista, basato sul manuale (De Vecchi 1936) con le modifiche del ’44 (che defascistizzavano le “premesse generali” dei programmi) in vigore sostanzialmente fino ad oggi, e infine quello storico-problematico dei Programmi Brocca (metà degli anni ’80), attuato però solo a livello sperimentale. Attualmente c’è stata la proposta di un insegnamento problematico-critico della filosofia, estesa a tutti gli indirizzi della scuola secondaria, secondo le indicazioni della “Commissione dei Saggi” del ’97 , ripresa nel documento I contenuti essenziali per la formazione di base, elaborato dal gruppo ristretto dei sei l’anno successivo.

Cerco brevemente di ricostruire i tratti essenziali di questo sviluppo.
Prima della riforma Gentile del ’23, la filosofia, pensata come sapere essenziale per la futura classe dirigente e quindi inserita solo nel Liceo, veniva insegnata in maniera sistematica, per “Questioni” (logica, metafisica ed etica) ripartite negli ultimi tre anni. Il testo di riferimento era il manuale, e la dimensione storica era pressoché assente. La Riforma Gentile introdusse due novità fondamentali: l’abolizione del metodo teoretico-sistematico, con l’insegnamento della storia della filosofia, e l’abbinamento delle cattedre di filosofia e storia. La riforma fu la conclusione della battaglia anti-positivistica che Gentile e Croce avevano iniziato, in funzione di un rinnovamento dell’idealismo hegeliano. L’insegnamento storico della filosofia aveva, nell’intenzione di Gentile, un’esplicita connotazione antidogmatica, e quindi una funzione – a suo avviso – essenzialmente critica, perché si basava sui seguenti presupposti fondamentali:
• L’assunzione teoretica del circolo storia-filosofia (secondo il paradigma hegeliano per cui lo sviluppo della storia è lo sviluppo della verità e viceversa.)
• Il concetto di filosofia come “attualità” del pensiero.

La lettura dei testi filosofici era, in tale contesto, l’ occasione per riattivare il processo spirituale, in cui risiedeva, secondo Gentile, il vero compito dell’educazione. L’insegnamento-apprendimento della filosofia doveva dunque passare attraverso il filosofare sui testi, liberamente scelti, letti e interpretati dal docente, espungendo dall’attività didattica il manuale.
Dal punto di vista scolastico la riforma Gentile, relativamente all’insegnamento della filosofia, durò ben poco, anche perché, da De Vecchi in poi, il manuale ritornò in auge, diventando da quel momento in poi il centro dell’attività didattica.
Dal punto di vista dei contenuti però, il metodo storico rimase in vigore, sempre più sganciato dall’approccio ai testi, perché la finalità dei programmi divenne “l’esposizione storica” della filosofia
La storia dell’insegnamento della filosofia in Italia dal ’24 al ’44 può quindi essere compendiata nella formula: “sempre più storia e sempre meno filosofia”. Quest’impostazione non fu scalfita nemmeno nel secondo dopoguerra, quando il precario equilibrio tra filosofia e storia si ruppe in favore della storia della filosofia, anzi della storia tout-court. La dissoluzione dell’idealismo trapassò in posizioni in vario modo influenzate dal marxismo, con il predominio di una forma mentis storicistica, che guardava sempre più con sospetto alla specificità del discorso filosofico e tendeva a ridurre la ricerca filosofica a storia delle idee. È in questa temperie culturale che venne avanzata da alcuni, nei primi anni Settanta, la proposta di abolire l’insegnamento della filosofia dalle scuole, come disciplina autonoma, in favore di un generico insegnamento di “scienze umane “. Negli anni ’80, invece, si assiste ad una rivalutazione del valore e della specificità dell’insegnamento filosofico, che si traduce nella proposta dei Programmi Brocca, i quali esibiscono un approccio storico-tematico, accordando centralità all’utilizzo dei testi. Il grande dibattito tra sostenitori dell’insegnamento storico e quello per problemi, che qui non posso seguire dettagliatamente, aveva perso comunque, dagli anni ’60 in poi, il suo carattere ideologico, e si era trasformato in un’opzione metodologica, che vedeva nella proposta Brocca un compromesso “alto” tra le diverse istanze in contrapposte. La posizione attuale, espressa nel già citato “Documento dei Saggi del 98”, è però mutata rispetto a quella di vent’anni fa. In essa pare prevalere un’identità scolastica della filosofia di tipo problematico-critico. La filosofia, secondo questo documento, “non può venire estesa indiscriminatamente nella sua forma attuale di ricostruzione storica”; occorre invece dotare i giovani degli “strumenti concettuali adeguati alla ricostruzione di una soggettività propositiva e critica (…) capaci di affrontare e risolvere questioni di senso, valore e verità”. Occorre dunque evitare che un metodo troppo attento all’evoluzione storica, e all’esibizione di diverse ed eterogenee risposte alle varie “questioni”, induca ad esiti di tipo scettico e relativistico.
Molte istanze di questa proposta sono assolutamente condivisibili, ma c’è chi ne rivela alcuni pericoli. Il primo pericolo è quello che “l’insegnamento della filosofia, sganciato dal suo contesto storico, possa facilmente alleggerirsi in un discorso generico e banalizzante” , così da “trasformare questa materia in una sorta di educazione civica, e l’insegnante in una specie di consigliere spirituale“. Il secondo pericolo è quello della perdita del senso storico e dell’identità culturale, in conseguenza di un appiattimento “orizzontale” e falsamente attualizzante dei problemi filosofici, secondo il prevalere di un modello di riferimento influenzato dalla cultura filosofica anglosassone . Caratteristica del modo di pensare proprio di essa, e in generale di ogni modello teoretico di insegnamento della filosofia, è di “intendere il rapporto di verità ed errore come rapporto di opposizione” atemporale , costituendo una nuova ortodossia in base alla quale “giudicare” le altre filosofie. Che attualmente le posizioni dei filosofi in am-bito analitico siano più raffinate, non toglie, secondo alcuni autori, il pericolo di dogmatismo, contrario ad un vero e proprio spirito critico-storicizzante. Il “filosofare” in senso problematico dovrà dunque configurarsi in base ad una pluralità di esperienze di pensiero, sia sincronicamente, che diacronicamente; lo studio dei diversi filosofi e sistemi che si sono succeduti nella storia potrà permettere dunque di capire che “fare filosofia” è sempre “fare una certa filosofia”, e che tale esercizio è potenzialmente infinito.
D’altronde il modello tradizionale d’insegnamento storico si vale , in Italia, di una lunga tradizione – soprattutto accademica! È nell’Università, infatti, che si formano i futuri insegnati – e consuetudine [l’habitus di Bourdieu!], mentre “l’adozione di un metodo problematico critico, che non vanta alcuna tradizione significativa nel nostro paese, richiederebbe la costruzione di una categorizzazione nuova di tipo teoretico e per problemi già nel contesto universitario” (ove è invece prevalente – come è anche il caso della mia esperienza personale – un approccio storicistico e filologico) onde evitare l’adozione “necessariamente improvvisata” di un modello non sufficientemente acquisito. La soluzione migliore pare dunque quella di mantenere il metodo storico, sia pure con modifiche tratte dalle nuove metodologie didattiche, volte cioè a restituire lo spazio autonomo nella dimensione teoretico-argomentativa .
Ma quale tipo di “approccio storico” occorre mantenere? E quale può essere, di conseguenza, la nuova identità didattica del docente? Cercherò di rispondere a queste domande ritornando a considerare quella che a mio avviso è la “matrice” storica di quest’identità, presente nel modello gentiliano.
Com’è noto, Gentile non forniva un programma d’insegnamento, ma un programma d’esame, eliminando il manuale in favore di un approccio diretto ai testi. Lo smantellamento di una prescrizione didattica vincolante sul piano dei programmi, in nome della libertà d’insegnamento, doveva poggiare essenzialmente sulle doti socratiche dell’insegnante. Egli era libero di scegliere, in un elenco di testi ripartiti per anno, quelli più confacenti allo scopo di realizzare “l’unità vivente di educatore e educando”, risolvendo nella propria individualità di maestro quella degli scolari. Il frutto del pensiero precedente, cioè il materiale didattico, non sarebbe rimasto “pensiero cristallizzato”, ma sarebbe divenuto “pensiero in atto”, nell’attualità pensante degli allievi. Risulta dunque chiaro che, in tale modello, non vi era un’attenzione alla razionalità pedagogica della didattica, che veniva risolta nella creatività personale e non teorizzabile del singolo docente.
Quando ho studiato questo modello, mi sono reso conto che esso probabilmente è la matrice profonda della mentalità di lungo periodo presente in molti insegnati di filosofia, sia pure depauperata dal venir meno di un utilizzo “filosofico” dei testi. Ci si potrebbe forse chiedere come restituire questo carattere di creatività e libertà all’insegnamento della filosofia, pur sganciandosi dall’impianto idealistico originario. È chiaro infatti che, a dispetto della sua presunzione di essere “critico” e “antidogmatico”, quell’impianto si fondava su di un forte e ben determinato apparato concettuale. La stessa storia del pensiero, come è noto, in Gentile seguiva piuttosto il ritmo  di una “storia ideale eterna” (Vico) che di una storia attenta ai contesti effettuali e aperta all’affacciarsi dello studente su scenari concettuali di epoche e persone diverse e plurali. Un pensiero, come quello di Gentile, che aveva per fondamento l’idea che “conoscere è ridurre l’altro a sé”, identificare, togliere l’alterità, assimilare al soggetto pensante tutto ciò che non è il soggetto pensante, non poteva che collocarsi nel “presente assoluto” e non in “un altro presente”, secondo la bella espressione di Paolo Rossi, in cui solo è possibile la formazione di un’autentica coscienza storica
Evitato dunque il pericolo di una perdita del senso storico che tanto l’approccio astrattamente problematico quanto quello rigidamente gentiliano prospettano, occorre evitare anche il pericolo di annullare la dimensione di ricerca di senso, di argomentazione, di soluzione di problemi morali. Infatti, proprio la formazione di una “soggettività autonoma e critica” passa attraverso un’acquisizione di un’autentica dimensione storica.
A questo proposito, particolarmente interessante mi pare la proposta fatta da Vittorio Mathieu:
L’insegnamento della filosofia non può prescindere da due caratteristiche essenziali del suo pensiero: la sua personalità e quindi, subordinatamente, la sua storicità.
1. Non esiste uno sviluppo impersonale e anonimo del pensiero che si estrinseca in testi comprensibili a prescindere dalla personalità dell’autore. Come l’opera d’arte, così il pensiero è strettamente legato all’individualità irripetibile del filosofo
2. Comprendere un autore significa in primo luogo comprendere i problemi dai quali la sua riflessione prende le mosse; problemi che evidentemente acquistano intelligibilità e spessore solo se inquadrati storicamente. Con ciò non si intende affatto un ritorno alla tradizionale storia della filosofia, intesa come successione lineare e progressiva di diversi autori, tutti inscrivibili in uno schema unitario. Si tratta piuttosto di immergere la peculiarità individuale del filosofo nella sua atmosfera procedendo per irradiazione (….) a partire dal singolo pensatore è possibile ricostruire efficacemente un periodo storico senza pretese irrealizzabili di completezza
3. Resta fondamentale l’idea, fedele allo spirito della riforma Gentile, della centralità dei testi, strumento privilegiato e insostituibile di accesso alla personalità del filosofo .

In questo modo la personalità e storicità si fondono, la personalità e la storicità degli autori studiati, quella degli insegnanti, e quella degli allievi, meta primaria dell’intenzionalità educativa della scuola. Si potrebbe parlare di fusione di orizzonti ermeneutico-pedagogica.
Nell’ambito di queste finalità generali, l’insegnante potrà dunque utilizzare tutte le tecniche metodologiche, gli strumenti del mestiere, che la moderna scienza della didattica può fornirgli. I “dispositivi” educativi possono mutare, possono mutare le esperienze che noi proponiamo agli allievi (lezioni frontali, lezioni partecipate o interattive, lezioni colloquio, laboratori, attività di Role Playing, esercizi e innovazioni didattiche, progettazione curricolare e modulare etc.**) ma questi elementi di ‘maestria’ e professionalità docente – fondati su di un solido e continuo studio dei contenuti disciplinari – non possono prescindere da quelli inerenti alla dimensione personale del docente, alla sua storia e individualità “irripetibile”, e alla sua libertà di insegnamento.
Creatività e libertà non si identificano con improvvisazione didattica. Per evitare questo rischio un docente può valersi dello studio e aggiornamento delle nuove metodologie didattiche, ma soprattutto può far tesoro dell’esperienza che gli fornisce la sua pratica didattica, l’incontro e lo scambio con i colleghi e gli allievi e il ricordo, forse, dei suoi antichi insegnanti.

 

*Questo brano fa parte della sezione centrale di un elaborato teorico che presentai nel 2001 per l’abilitazione SSIS d Milano. Ho omesso le note, per non appesantire la lettura.

**Ho omesso  di parlare anche, perché allora non ancora attuale, del fenomeno delle video-lezioni dei vari YouTuber – da circa un decennio presente in internet, ma acceleratosi negli ultimi tre-quattro anni anche a causa della pandemia  (il più famoso dei quali è Matteo Saudino, ma mi piace anche ricordare il geniale Ennio Guglielmetto)Ciò renderebbe necessario l’allargamento della proposta ad una analisi di questo fenomeno reso disponibile dalle nuove tecnologie (che anche  io  stesso ho in parte ho usato, sia pure attraverso il podcast, nel tempo del lookdown pandemico). Ovviamente si porrebbero altre problematiche, circa la natura di dispositivo (foucaultiano) del supporto web, e quindi riguardo al rischio della creazione di una maggiore dipendenza quasi carismatica, attraverso una ipertrofia dell’effetto fascinatorio-affabulatorio delle parole dello YouTuber, con possibili  derive mimetiche e omologanti. Come sostengo, ogni insegnante ha il proprio stile, storia e personalità, e se il mio discorso può estendersi ai dispositivo web, deve tener conto degli effetti, anche ermeneutici, e delle caratteristiche  di soggettivazione indotta  – certamente anche innovative – di tale dispositivo.

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