Filosofia
il tempo che “ci” esce
Caro Cigno Nero,
aspettando il pomeriggio per l’interpretazione dei numeri della pandemia, mi accorgo di trovarmi immersa in una benefica lentezza in quasi tutte le azioni quotidiane, anche nelle mie relazioni sociali non più frettolose, sia pure in coordinate spazio-temporali per lo più virtuali. Allora, mi chiedo: ma, in questa lentezza, non abbiamo paura che finisca il nostro tempo? O piuttosto pensiamo quanto sia banalmente facile perdere la vita? Tuttavia non ci sono solo quelli che hanno paura, ma anche quelli che si orientano verso le cose più importanti, convinti che ogni momento è un vero e proprio dono (dopo la sofferenza e il rischio di perdere tutto) e allora non c’è tempo da perdere: anzi è bene farne il miglior uso possibile.
Ora che tutta l’umanità sta affrontando lo stesso male, “il tempo ha un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra personalità”, perché “il covid ci ha costretto a una dimensione temporale più ampia e più complessa”, come scrive Vittorio Luigi Castellazzi nel suo libro “Il tempo: l’estendersi dell’esistenza”. Ma il tempo è uguale per tutti?
Daniela B.
Cara Daniela,
esiste una sconfinata letteratura che, a fronte di un mondo tanto frenetico, negli ultimi dieci anni si è sgolata nell’esortazione alla lentezza: dalla saggistica economica agli albi illustrati per l’infanzia, dalle guide ai ristoranti “slow” ai manuali di istruzioni per vivere bene, sono le più disparate le zone del sapere che hanno invocato un “adagio” come stile di vita.
La lentezza pandemica ha improvvisamente messo a tacere queste voci, perché sembrerebbe finalmente la risposta a quell’invito precedentemente inascoltato. Tuttavia, se fino a ieri ci veniva suggerito di rallentare per migliorare la qualità del nostro tempo privato, come consiglio personale per non impazzire di stress, la lentezza che viviamo nel nuovo scenario non si presenta tanto come valore in sé, quanto all’interno della relazione, che tu stessa metti a fuoco: la lentezza entra in relazione con la consapevolezza di quanto sia facile perdere la vita; la lentezza diventa il modo di prendersi tempo per non perdere “il” tempo, cioè per non morire.
Se è vero che l’orizzonte della caducità ci ha sempre accompagnati, il nostro modo di resistere alla morte ‒ seppur pressoché inconsapevole ‒ è stato quello di tappare i buchi dei “tempi morti”. È così che siamo diventati veri specialisti nell’arte combinatoria del tempo senza porosità, né sul breve né sul lungo periodo. Probabilmente sono proprio i fuoriclasse degli incastri ad aver accusato maggiormente il cambiamento di ritmo, anche banalmente perché la vacanza in Giappone per l’estate 2020 è slittata, come forse accadrà per la Namibia del 2021. E se il 2022 e 2023 sarebbero stati per Patagonia e Birmania, non è ironia dire che la loro vita è scombinata, perché sappiamo che dietro una vacanza ruota tutta una serie di elementi altri e sistemicamente interdipendenti. Il problema è che adesso non si tratta più semplicemente di pianificare di nuovo, col rischio di costruire l’ennesimo castello di carta, ma di operare un ripensamento più impegnativo del tempo, che non si limiti a considerarlo in una prospettiva lineare perché ‒ come scrivi ‒ questa nuova lentezza scopre una dimensione temporale ben “più ampia e più complessa”. Suggestive, in proposito, le parole di Borges: “non c’è altro enigma che quello del tempo, quell’infinita trama dell’ieri, dell’oggi, dell’avvenire, del sempre e del mai”.
In questa trama può venirci in aiuto il filosofo Bergson, che molto tempo ha speso sul tempo, invitandoci a considerarlo da due punti di vista. C’è il tempo oggettivo, che è quello lineare dell’orologio e delle agende, in cui infiliamo un impegno dietro l’altro, esattamente come si infilano una dietro l’altra le perle di una collana. Ed è un tempo misurabile questo, perché ogni momento, così come ogni perla, è identico all’altro: gli istanti sono talmente interscambiabili da consentirne la reversibilità; così, se una o più perle cadono e si perdono, potremo comunque sostituirle, tornare indietro e ricominciare da capo. Insomma, in Giappone potremo sempre andare nel 2022.
E poi c’è un altro tempo, quello della coscienza, che Bergson chiama “durata”. La durata conserva tutto, non perde niente e va sempre avanti. Per questo è più simile a una valanga che, a partire dal primo fiocco, scende prendendo altra neve con sé. Allo stesso modo la nostra vita avanza sempre, pur portandosi dentro il passato di quel primo fiocco di neve. E in questa prospettiva nessun istante è uguale all’altro, perché incontriamo pendii più o meno scoscesi, ostacoli più o meno devianti, manti nevosi che, a seconda della compattezza, ci fanno accumulare più o meno neve. In questa prospettiva nessuna valanga è identica all’altra.
Ecco, la pandemia ci porta e a fare i conti anche con questo tempo non lineare, che poi è il tempo che siamo. L’enigma vero sta nella contemporaneità, nel senso della convivenza di queste due accezioni di tempo, quello delle agende e del piano di realtà, intersoggettivo e capace di rimanere educatamente nei 4/4, con quello delle coscienze e del piano interiore, anarchicamente sincopato e spesso dissonante.
Il fatto è che viviamo una specie di tempo in rivolta, che ci porta a sovvertire l’abitudine: se nell’agenda sapevamo far “entrare” tutto il tempo, adesso pare che quello non voglia saperne, pare che il tempo vero sia quello che “esce” dal calendario, in cui ci rifiutiamo di annotare: “un’ora di coccole”; “pomeriggio creativo”; “tempo per un pianto lungo”; “momento dei pensieri in libertà”; “giocare alla pioggia di farina” e cose del genere.
Ma cos’è, dunque, questo tempo che esce? Potrebbe avere a che fare con il tempo che “ci esce”? Che sia lo stesso che tu definisci “un vero e proprio dono”? Pensiamo al caffè che “ci esce” prima di entrare a lavoro; alla telefonata che “ci esce”, perché magari nel frattempo siamo bloccati nel traffico. Sono momenti che hanno lo stesso sapore della caramella che “ci usciva” quando andavamo a comprare la merenda con le millelire. “Ci esce anche questa?” domandavamo al cassiere quando non conoscevamo il valore dei soldi ‒ né tantomeno quello delle agende ‒. E che gioia quando la risposta era un: “Sì, ci esce”, oppure, meglio ancora: “No, non ci esce, ma ce la facciamo uscire”.
Ecco, il tempo che esce dall’agenda ha il sapore di ciò che “ci esce”, dove il “ci” è importante perché è complemento oggetto, nel senso che fa uscire fuori “noi” stessi. Potrebbe intendere un po’ questo Castellazzi quando scrive che il tempo “ha un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra personalità”? Il tempo che “ci” esce è il tempo che ci fa venire alla luce, che ci scoperchia, che ci fa essere quelle e quelli che siamo. Forse ci stiamo riscoprendo un po’ valanghe, a cui non serve più sparare neve artificiale per mantenere costante il corso della vita, perché cominciamo probabilmente a comprendere che il tempo, come il tempo-meteo, di cui tanto ci piace parlare quando non sappiamo che farcene del tempo, non si può comandare.
Quando si parla di lentezza si parla di lumache, che ‒ guarda caso ‒ escono con la pioggia, in un tempo infrequentabile secondo l’agenda. Oppure di tartarughe. E il pensiero va a Zenone, al suo mirabolante paradosso secondo il quale Achille non le raggiungerà mai perché, nel mentre del suo avanzare, anche loro avranno conquistato un pezzetto di strada. Si può leggere questa storiella come apologia della logica, della perfezione formale di un ragionamento che sfida e supera la concretezza dell’esperienza. La si può leggere però anche in un altro modo: il tempo-agenda è “piè veloce” e noi le tartarughe, più lente con la nostra casa-vita a carico. Allora non conta tanto quanto veloce vada Achille, bensì ogni pezzetto di strada che riusciamo a fare, che sia lento o che sia rock, senza sbarazzarci dell’ identità, della nostra casa. Il punto è che se ci mettiamo sullo stesso piano di Achille, se facciamo cioè coincidere il nostro tempo con quello dell’ agenda, abbiamo già perso in partenza, perché avremo perso il tempo prima del tempo.
Milan Kundera aveva individuato l’equazione temporale per cui il grado di velocità sarebbe direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio. Ne discenderebbe l’inverso, per cui la lentezza che viviamo dovrebbe favorire la forza della memoria. Ma perché ho il sospetto che, al primo verde, torneremo a sfrecciare così veloce da scordare ciò che è stato? Si dimentica così facilmente il tempo che “ci è uscito”?
Irene Merlini
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