Filosofia
Il silenzio-assenso degli intellettuali in Cassandra muta
All’indomani del voto, c’è un libro edito da Gruppo Abele che merita questo tentativo di diffusione. E’ Cassandra muta di Tomaso Montanari, intellettuale e docente universitario, corteggiato dalla politica e da questa temuto, appunto, nella sua veste di pensatore critico e agitatore d’anime.
Parliamo di un saggio breve ma denso che denuncia le fragilità, i vizi e le mancate virtù di politica, università e media. Un pamphlet a tratti pungente, con precisi riferimenti al presente e ad alcuni suoi protagonisti. Un testo che si smarca da rassicuranti posizioni mediatiche e dall’intrattenimento di massa, e che in ultimo sarà quindi dimenticato.
E’ una ricognizione ad alta quota sull’eterna questione del rapporto tra intellettuali e potere. Tra verità di parola e verità del reale, nello spazio infinito tra l’idea del potere e il potere del vero.
L’autore parte dalla figura di Cassandra, dal mondo classico al quale si torna e si tornerà sempre, chiudendo nelle parole di Socrate il grande silenzio sul dibattito permanente, quello tra pensiero critico e vita della polis. Il silenzio di chi ingoia il limite ultimo della sfida sulla “verità”, cioè la fine della vita, intesa come vita pubblica ma anche in senso biologico. Quanti morti hanno solo parlato troppo, scritto troppo, o anche solo alluso troppo per dover morire? Tuttora parlano, si schierano, supportano idee, nelle voci e nelle parole dei posteri che ne fanno spesso strumento arbitrario. E’ il caso emblematico di Ennio Flaiano e i suoi aforismi sul fascismo.
Cosa intendiamo oggi per intellettuale è già in sé domanda anacronistica. Chi riesce a dire una verità sapendone dire anche i presupposti in modo tale che questa si collochi tra il cielo e la terra, tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti? O chi scelga di dire la verità anche contro sé stesso o i propri interessi personali o di casta? Un uomo di pensiero critico e spirito anticonformista inviso sia alla gente comune che alle alle classi dirigenti? Oggi un intellettuale onesto è persona rara, perché la storia lo annienta, lo sacrifica, lo confina nei libri per pochi.
Il sottotitolo del libro recita: “intellettuali e potere nell’Italia senza verità”. Parafrasando, viene il sospetto che si cominci ad essere stanchi di verità, di libertà, anche di democrazia, perché questi “miti” provenienti dal fondo dei tempi ci hanno comunque deluso, diviso, e spesso lo hanno fatto con dorate parole, quelle di cosiddetti intellettuali, gli epigoni dei quali ora spesso tacciono, a loro volta ammutoliti dal disgusto o dallo zelo verso un centro di potere. Ma alcuni, i più controversi e irriducibili oggi tacciono perché sepolti, nascosti, o uccisi, come il tanto evocato Pasolini, mai come in questi tempi citato sui giornali e sul web, assurto a simbolo d’intellettuale scomodo, martire di una battaglia mai vinta. Lui è divenuto un’icona, ma i casi di uccisioni e persecuzioni di cercatori del vero, sono tanti anche nella storia più recente e nelle pagine dei giornali di ieri.
Il libro di Tomaso Montanari ha il grande merito di schierarsi in modo netto e indicare nomi e cognomi di politici, giornalisti, storici, a suo avviso viziati dal proprio narcisismo o dall’urgenza di restare in auge, protetti in qualche modo dal consenso mediatico e dalla politica; ha il grande merito di suggerire una volta ancora che dovremmo leggere i classici, tornare alle radici dell’umanesimo e della civiltà dei diritti prima di urlare tanto e lamentarci di tutto; che dovremmo saperci volgere al presente con occhi critici e parole incaute e sensibili. E ancora, ha il vanto di testimoniare la vita di un intellettuale contrario e contrariato, che tenta coi suoi meriti e i suoi titoli l’opera del “maestro” che unisce le coscienze, se ne fa portavoce. Tutto questo senza troppo compiacimento e con passione sfacciata.
Ma la questione delle questioni, la verità, l’idea che essa esista e sia dicibile, è un colpo inferto al senso comune, nel tempo delle notizie false come fenomeno giornalistico degno di pubblicazioni e seriose inchieste. E lo è ancora davanti alle molteplici pellicole cinematografiche e pièce teatrali ispirate ai misteri italiani di sempre (dal caso Moro, alla morte di Pasolini, dalla storia di Mattei fino alle stragi rosse, nere e mafiose, ai disastri idro-geologici e finanziari e la lista supererebbe la portata dell’articolo), ormai divenuti principi ispiratori di “fiction” in quanto impossibili verità. Invocare la verità sulle cose del nostro paese è di per sé invocare da una parte il suo esatto contrario, la menzogna, e dall’altra la morte, o l’isolamento estremo, finali di vite che hanno cercato, indagato, scritto cose che “non dovevano” essere vere o verificate.
Bisogna tornare indietro di secoli, solcare i sentieri della filosofia classica e del dibattito contemporaneo sul ruolo degli intellettuali, per mettere un po’ di quiete attorno alla parola verità, stabilendo che essa sia solo una propensione mentale (o morale), un atteggiamento appunto intellettuale più che un assoluto. Qui il libro si lascia dietro la questione, parte dall’assioma che la verità esiste, ma lo fa onestamente, citando comunque posizioni differenti in merito, come quella di Bobbio che parlava di verità mutanti.
E chi, chiediamo all’autore, quale cittadino lavoratore consumatore distratto, frustrato e stanco, potrà seguire questo appello rivolto al pensiero critico? E parliamo di cittadini comuni perché loro sono da sempre i destinatari, i soggetti primi delle fatiche intellettuali (diciamo di molti intellettuali di sinistra), rivolte a difendere istanze sociali di una certa ampiezza. Per la gente comune l’intellettuale si è fatto condensatore di pensiero contro politiche autoritarie, portavoce di istanze democratiche contro governi totalitari, come fu quello fascista.
Oggi pare che molti intellettuali del paese siano indistinguibili nella bolla di un’élite corruttibile e che nel contempo la gente comune non ne senta particolare bisogno, ne provi anzi fastidio.
Eppure gli intellettuali ci sono ancora, anche in un tempo dove la velocità di espressione vanifica le analisi, dove approfondire è fuori moda e gli articoli hanno i tempi medi di lettura. Qualcuno vive recluso, sotto scorta armata, in virtù del suo pensiero critico. Sono combattuti, divorati dalla colpa del proprio sapere-sentire e da un oscuro richiamo nichilista tanto più forte quanto più l’età avanza (pensiamo alle parole di Giampaolo Pansa, di Eugenio Scalfari e altri pensatori ultra ottuagenari); Sono i colpevoli delle mancate opinioni pubbliche, le cassandre maledette emarginate nei sotterranei seminariali o universitari, sono i disfattisti entusiasti (accusa rivolta ad esempio a Walter Siti). Sono questi uomini dalla proterva coscienza critica (di cui non riescono a liberarsi), gli intellettuali veri di oggi. Pochi, davvero pochi, hanno un forte ascendente sulla gente, capace di unire forza mediatica e di pensiero critico. Uno tra questi è chiaramente Roberto Saviano, per quanto sempre vacilli anche il suo podio sotto i colpi della stessa categoria cui appartiene.
Meglio un artista che un intellettuale si direbbe vedendo chi affianca nei salotti d’opinione ministri, segretari di partito e giornalisti. Meglio un artista che in modo semplice ma sincero ci somministri una (quantomeno sua) dose di verità. Digeriamo meglio Manuel Agnelli di Tomaso Montanari, ci fidiamo della popolarità della tv. Meglio quindi Riccardo Scamarcio di un intellettuale-poeta come Giuseppe Montesano, o Ermal Meta rispetto allo spinoso poco televisivo Antonio Moresco.
Ma in Cassandra muta un intellettuale ci lancia un monito. Quale diventi la sua azione collettiva se non ha che una manciata di lettori o di studenti illuminati è la domanda che ha sospinto queste righe.
Perché la profezia più nera non s’avveri mai, gli intellettuali ci nutrano, e aspirino alla sensibilità di tanti traducendola in parole audaci messe contro i diversi poteri che nel silenzio e nella corsa del tempo ci opprimono. E da lì si passi all’azione politica, a nuova azione politica, se mai sia possibile.
Un tempo i cittadini formavano un popolo colmo di coscienza di classe e di rabbia al quale gli intellettuali rivolgevano le proprie tesi, stando lì, nel mezzo tra la politica e la gente, il tempo necessario a innescare reazioni. E così le università. Oggi il mondo degli intellettuali – tanti arresi a un brillante cinismo da copertina – pare lontano da quello di chi va avanti senza pensare, tutti i giorni, perché il pensare critico è sconveniente, non serve più a nulla, può liberare solo mostri.
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