Benessere

Il q. b. della felicità

5 Febbraio 2021

Caro Cigno nero,

Quando,in una condizione di forte disagio,cala la qualità del vivere,nel migliore dei casi si pensa di dover cambiare stile di vita. Spesso questo suggerimento viene da uno psicoterapeuta , che tuttavia non è sempre in grado di fornire le preziose “istruzioni per l’uso”. Di fatto, la persona in difficoltà sente l’esigenza di rincorrere un probabile ideale di felicità che, però, porta a dover scegliere tra una forma di protesta e una possibile via di fuga dal malessere. Qualcuno propone di passare da una visione unilaterale e addirittura fanatica delle cose del mondo all’esperienza estetica. Nell’arte , infatti, l’ambiguità ci fa contattare l’attivazione della risonanza e della creatività. “Contemplare”,da una distanza di sicurezza,anche un paesaggio minaccioso, consente di trasformare il pensiero in una sensazione gradevole,in una sorta di rinascita,in un processo senza fine. Quale filosofia può illuminare questo percorso?

Zelda

Cara Zelda,

Una condizione di disagio o una vita insoddisfacente ci riportano ad un desiderio ben preciso, che poi è la matrice di ogni desiderio: il desiderio di felicità. Ma, per quanto chiaro sia il desiderio, è il concetto di felicità che resta problematico. Con la felicità abbiamo tutti la vista un po’ annebbiata – come dice Seneca – tanto che, più ce ne allontaniamo più ci affanniamo a raggiungerla, non rendendoci conto di trovarci sulla strada sbagliata. Ecco perché siamo così attratti dalle formule semplicistiche che promettono una felicità a portata di mano. Perché sappiamo, ce lo dice l’esperienza, che quanto a felicità siamo sprovvisti di coordinate.

Di manuali sulla felicità è pieno il mondo: interi scaffali di librerie, per non parlare dei corsi che promettono di renderci felici in 10 mosse, soddisfatti o rimborsati. Poi ci sono gli esperti di felicità, disposti a svelare il segreto della loro immunità alla tristezza, e la felicità virtuale, quella autoreferenziale dei social, messa in vetrina per darla in pasto a un pubblico anonimo.

Tutto questo “sapere” sulla felicità resta abbastanza inspiegabile, però, nel momento in cui ci soffermiamo a riflettere su una cosa: a differenza di quanto succede con l’infelicità, quando siamo felici non ci chiediamo mai il perché. Occupati dalla felicità che ci assorbe totalmente, felici lo siamo e basta. Lo siamo stati tutti. Ed è l’unico aspetto che tutte le felicità hanno in comune, perché la forma che questo stato d’animo ha preso per ciascuno di noi è assolutamente unica. Ce ne accorgiamo quando sentiamo nostalgia di quel tempo (sempre troppo breve col senno di poi), le cui tracce possono nascondersi nelle cose più strane e nelle più piccole pieghe della memoria: come quella particolare luce che illuminava l’angolo in cui aspettavamo qualcuno, o il sottofondo di voci che ci faceva compagnia di ritorno verso casa. È così, la felicità. Impregna tutto. Ma quella nostalgia che ci devasta arrivando senza preavviso è anche promemoria di una felicità che c’è stata, e che per sua natura non può che essere uno stato transitorio, che ci ostiniamo a dilatare e rincorrere, mentre cerchiamo in tutti i modi di fuggire dalla versione infelice di noi stessi.

Se vogliamo disperatamente essere felici perché paghiamo un biglietto al cinema per farci spaventare o non riusciamo a staccare gli occhi da un quadro che rappresenta una scena angosciante? Perché ascoltiamo ripetutamente canzoni tristi e leggiamo con tanto trasporto poesie che parlano di abbandono, morte o del male di vivere? Perché, lungi dall’essere l’ennesimo libretto di istruzioni, l’arte parla ai nostri sensi mettendoli in dialogo con il nostro intelletto, producendo così quella sensazione di “non so che”, indefinita proprio come è la felicità. E in questo sta la sua terapeuticità, quando, mentre ci confonde, ci spinge a dare significato, facendoci passare dal brutto al bello per mezzo dell’armonia.

Che la felicità sia allora una questione di equilibrio? E se è così, si può imparare a essere felici? È quello che pensava Epicuro, che la felicità è andato a scovarla nel piacere che ha a che fare con la “carne”, ma un “piacere della carne” di tutt’altro tipo rispetto a quello cui siamo abituati a pensare (e che è stato fonte di molti equivoci sull’epicureismo). La carne per Epicuro non è una parte anatomica del corpo, bensì una carne “cosciente”, il soggetto del dolore e del piacere: dell’individuo che può sentire fame, sete e freddo. Perciò dobbiamo imparare a distinguere, tra i piaceri, quelli autentici, “stabili”- che liberano cioè la carne dalla sofferenza, generando uno stato di equilibrio in un corpo appagato – da quelli “in movimento”, caratterizzati dall’essere insaziabili ed effimeri, e che quindi ci lasciano insoddisfatti trasformandosi in dolore.

La “felicità carnale” di Epicuro, fondata sul piacere come annientamento della sofferenza, è una questione di scelta: quella di vivere il piacere come semplice piacere di esistere. E se questo concetto può sembrare lontano dalla nostra idea di piacere, e ancor più da quella di felicità, proviamo a portarlo nel nostro presente, dentro le case in cui ci sentiamo reclusi, tra le vecchie abitudini che abbiamo quasi dimenticato, come andare al cinema perché danno quel film che volevamo proprio vedere, prendere un treno “solo” perché sentiamo la mancanza di qualcuno o camminare per le vie del centro a notte fonda; portiamolo in mezzo a tutte quelle piccole cose fatte di piccoli gesti, che abbiamo sempre compresso in ritagli di tempo, e che adesso ci sembrano piaceri inimmaginabili, contaminati come sono dalla paura e dai divieti, ma che continuiamo a desiderare per sentirci di nuovo felici. Pensiamo alla carne di quanti hanno fame, sete e freddo perché la casa o il lavoro li hanno persi. Pensiamo a quanto l’amicizia è tornata ad essere preziosa, proprio come sosteneva Epicuro, per la felicità; e a quanto la paura della morte, che per questo filosofo non può esserci finché ci siamo noi, è invece così presente adesso, tanto da condizionare ogni nostra scelta, azione o pensiero.

Tutto questo ha poco a che fare con manuali o facili ricette, perché è, al contrario, una pratica quotidiana, un invito a sperimentare sulla nostra pelle – o meglio carne – cosa significa avere una vita felice, in un percorso fatto di prove ed errori per costruirci la felicità in modo autonomo, scoprendo che si tratta di qualcosa che non sta fuori di noi, e che quindi non può venire da niente che non siamo noi.

La verità è che siamo più bravi con le istruzioni per renderci infelici – direbbe Watzlawick – con cui sabotiamo continuamente noi stessi, guardando le cose sempre dallo stesso punto di vista, il nostro; ostinandoci a cercare la felicità nella ripetizione a dispetto del mutare delle cose, o facendo del passato una fonte di infelicità.

Con la felicità invece bisogna prendere le misure e mettersi alla prova: se la nostra mente la riconduce ad un immaginario di chissà quale grandezza, è proprio allora che dobbiamo saper essere piccoli, come ci suggerisce Nietzsche, per poter osservare più da vicino “le cose che abbiamo intorno e dentro di noi”, così da diventare “buoni vicini di ciò che ci circonda”.

Se esistesse un’arte dell’essere felici, starebbe tutta nel rapporto tra quadro e cornice, descritto meravigliosamente da Josè Ortega y Gasset, secondo cui quando a causa del dolore ci rintaniamo in noi stessi, percepiamo nitidamente una linea nera che ci chiude dentro, limitandoci. Ma se quella linea nera diventa cornice, che succede? Per Ortega y Gasset senza cornice il quadro si disperderebbe nell’atmosfera perdendo la sua intimità. La cornice però non è un ornamento né un vestito per il quadro, perché la sua funzione non è quella di attirare lo sguardo su di sé, né di coprire il quadro. La cornice, di cui nessuno si accorge quando sta intorno al quadro, senza quadro, pur diventando finalmente visibile, resterebbe disoccupata, perdendo il suo senso. Allo stesso modo, la felicità non può essere un accessorio con cui adornarci e men che meno qualcosa da indossare, qualcosa con cui vestirci, svestirci e rivestirci. Noi abbiamo bisogno di lei tanto quanto lei ha bisogno di noi. Quadro e cornice.

Nel nostro ideale guardiamo alla felicità come a qualcosa di grandioso, ma la  felicità non ha nulla a che fare con il molto e il poco, perché può essere generata da un nulla. E allora, se fosse solo una questione di “quanto basta”?

Maria Luisa Petruccelli

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