Filosofia

Il problema dell’obbedienza

27 Gennaio 2015

Senza persone obbedienti (volenti o nolenti), tra i carnefici, i vicini, le vittime stesse, non avremmo avuto tanti genocidi (o tentativi genocidari) nel corso della storia del Novecento. Questa è la questione che ha assillato Hannah Arendt, Raul Hilberg, Stanley Milgram negli anni successivi alla catastrofe della shoah. L’esito delle loro ricerche (in filosofia politica, storia del diritto, psicologia sociale) ci permette uno sguardo approfondito e interdisciplinare. E qualche risposta.

Il problema dell’obbedienza  può essere proficuamente affrontato, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di sviluppare un’efficace tecnica di resistenza alla sottomissione automatica, riconoscendo l’ambiguità del concetto di “autorità”. Nel modo in cui usiamo il termine si nasconde infatti un tranello. Possiamo distinguere tra autorità “amministrativa” (il mio superiore) e autorità “cognitiva” (l’esperto). Mentre la prima rappresenta il diritto (riconosciuto) di esercitare il proprio comando sugli altri o la facoltà di emanare regole vincolanti per gli altri (la condizione di un superiore nei confronti di un sottoposto), la seconda indica piuttosto la competenza in un ambito della conoscenza o del sapere (la medicina, il diritto ecc.). L’autorità cognitiva può essere intesa come una relazione tra due individui, l’uno dei quali attribuisce un certo valore e peso o plausibilità, all’interno di un certo campo del sapere, a quanto sostiene l’altro individuo. Una persona può perciò essere un’autorità o perché è un esperto in certi campi della conoscenza o perché occupa una posizione che gli consente di dominare altre persone.

Spesso queste due differenti forme di autorità interagiscono, come è avvenuto nell’esperimento sull’obbedienza all’autorità che, a partire dal 1961, Stanley Milgram condusse parallelamente allo svolgersi, a Gerusalemme, del processo contro Adolf Eichmann, gerarca nazista colpevole di quello che  Arendt chiamò “crimine burocratico”, l’organizzazione amministrativa delle deportazioni verso i campi di concentramento e di sterminio nazisti. Esattamente come nel meccanismo di distruzione, le persone reclutate da Milgram tramite un annuncio su un giornale mettevano in atto la più completa sottomissione nei confronti di un presunto sperimentatore (l’autorità), il quale, fingendo che fosse in corso un esperimento sul ruolo del dolore nel campo dell’apprendimento, ingiungeva loro di inviare una scossa a una presunta vittima (in realtà un complice dello sperimentatore) contro la sua volontà e in violazione di norme morali e del diritto penale (se fossero state vere, le scosse avrebbero ucciso le vittime).

In ogni caso la distinzione tra le due tipologie di autorità sembra essere fondamentale, poiché la loro funzione è, in generale, differente. L’autorità cognitiva è una relazione tra due individui dove uno è un esperto in un particolare ambito della conoscenza mentre l’altro è (per lo più) un “profano” che ha bisogno dell’opinione dell’esperto e si orienta in base a essa. L’autorità istituzionale (o amministrativa) è, invece, la facoltà di impartire ordini o istruzioni che devono essere eseguiti in determinate situazioni: si basa su di una posizione gerarchica e tendenzialmente svuota la responsabilità individuale, facendo dell’uomo un ingranaggio di un meccanismo. È chiaro che confondere i due tipi di autorità potrebbe portare a una grave situazione di dipendenza da un esperto, come se si fosse costretti a fare sempre e solo ciò che dice l’esperto (preso come autorità amministrativa), senza poter discutere della validità di certe affermazioni e dell’attendibilità delle prove; d’altro lato, in una situazione di dipendenza istituzionale, considerare il proprio superiore come un esperto potrebbe peggiorare la nostra dipendenza, che diventerebbe quasi assoluta: amministrativa e cognitiva, mentre invece iniziare a riflettere sugli ordini che vengono impartiti potrebbe migliorare le relazioni di potere e permettere una certa resistenza. In definitiva, un appello all’autorità cognitiva consiste in uno schema argomentativo che solo in una certa misura, e in via del tutto generale assicura la verità delle tesi sostenute da un esperto, che possono essere persino controverse; in un appello a un’autorità amministrativa, invece, si tende spesso, se non per lo più, non solo a considerare l’argomento conclusivo, definitivo, incontrovertibile o indiscutibile (chi sei tu, per discutere di queste cose?) ma anche a realizzare ciò che viene presentato come verità e necessità. A meno che non decidiamo di non riconoscere tale autorità.

Affrontare la questione dell’obbedienza e della disobbedienza in campo psicologico, e analizzare il meccanismo amministrativo e le argomentazioni che hanno portato allo sterminio, permette di capire quali sono le  condizioni necessarie (ma, per la contingenza della storia, non sufficienti) per la riuscita degli atti di resistenza, sia da parte dei carnefici che dei vicini o delle vittime stesse.

Il fallimento di Kurt Gerstein (per approfondire vedi: L’ambiguità del bene, di Saul Friedländer) è sicuramente dovuto alla loro assenza. Prima condannato, poi riabilitato, che cosa aveva fatto? Aveva combattuto, come poteva (dall’interno e di nascosto), il nazionalsocialismo, ma aveva fallito, non riuscendo a ottenere l’interruzione del processo di sterminio. Era stato fagocitato dal meccanismo (forniva il gas), proprio mentre tentava di bloccarlo. Il paradosso fu, come abbiamo visto, che venne accusato di non aver capito che, da solo, non avrebbe mai potuto impedire lo sterminio né salvare alcuna vita umana. Se fosse stato uno spettatore passivo – come troppi altri – se avesse aspettato in silenzio la morte di tutti gli ebrei, non sarebbe invece stato condannato a titolo postumo, cinque anni dopo la sua morte.

Che cosa impariamo dal suo “impossibile” tentativo? Innanzitutto che divenne impossibile (inizialmente non lo era affatto) perché Gerstein venne lasciato solo, praticamente da tutti, anche da coloro che erano stati con lui al tempo della protesta (riuscita) contro il programma “eutanasia” (lo sterminio dei malati di mente). La resistenza ha bisogno del gruppo: Paul Grüninger, guardia svizzera di confine, non operava da solo, ma con i suoi collaboratori e sottoposti, con la comunità ebraica del suo cantone, talvolta, paradossalmente, addirittura con le autorità austriache (dalle quali fuggivano gli ebrei perseguitati), contro l’autorità federale svizzera; i resistenti del villaggio francese di Le Chambon o gli iniziatori dell’atto di resistenza contro la deportazione degli ebrei bulgari erano molti, troppi, perché si potesse aggirare la loro azione; il gruppo delle donne in Rosenstraße riceve la sua forza dall’unione.

Ma in questi quattro casi di resistenza “ordinaria” non ci troviamo ancora pienamente all’interno del meccanismo di sterminio (i campi e l’apparato burocratico), bensì alla periferia: un paese neutrale (la Svizzera), un paese occupato (la Francia), un paese alleato (la Bulgaria) e, paradossalmente, la stessa Berlino. Per resistere dall’interno si sarebbero dovute bloccare le forniture di Zyklon B, farle sparire o, in altri casi, far sparire i registri con i nomi degli ebrei, magari i registri delle stesse comunità ebraiche, oppure sabotare i treni e le deportazioni (cosa, quest’ultima, che Gerstein, nella trasposizione cinematografica delle sue vicende, il film Amen, di Costa-Gavras, propone al suo amico d’infanzia). Dall’esterno si sarebbero potuti accettare profughi, permettere loro di emigrare in Palestina o altrove (cosa che la Gran Bretagna non fece), o perlomeno bombardare le linee ferroviarie o bombardare le camere a gas, cosa che gli alleati non fecero, o ritardare la costruzione dei forni crematori. Come abbiamo sottolineato, Gerstein era troppo vicino al boia, per non finire con l’assomigliargli troppo. Si comportò come alcuni degli “insegnanti” di Milgram, i quali, quando non erano osservati, sabotavano l’esperimento, ma, da soli, non furono in grado di opporsi apertamente, e non riuscirono a trasformare il loro dissenso in disobbedienza. Il gruppo li avrebbe forse aiutati, ma attraverso gli esperimenti di Milgram sappiamo che il gruppo avrebbe potuto anche rafforzare (nel caso del nazionalsocialismo l’ha fatto) la spinta a obbedire.

Non sappiamo che cosa avrebbe fatto Grüninger, se fosse stato sottoposto all’esperimento sull’obbedienza all’autorità. Sappiamo però che, pur senza essere un ribelle, in una situazione reale disobbedì. Ciò che faceva gli sembrava naturale, quasi ovvio, credeva che tutti avrebbero dovuto agire come lui: non volle contrapporsi alle autorità federali, bensì aiutare i profughi. Perché lo fece? Nel suo caso (come forse in una certa misura era il caso di Gerstein e sicuramente anche il caso di Le Chambon e della Bulgaria) si trattò di seguire un’altra autorità: quella della tradizione elvetica.

Per resistere all’autorità ci vuole un’altra autorità: religiosa, storica, morale, statale. Grüninger è l’autorità, a Le Chambon il pastore Trocmè è un’autorità morale riconosciuta dalla comunità (Vichy rappresentava l’autorità illegittima, mentre invece il pastore era l’autorità riconosciuta, che si fondava a sua volta sull’autorità del Vangelo), in Bulgaria ci sono numerose autorità, civili e religiose, che si oppongono alle deportazioni – un’intera nazione (una città, il parlamento, il patriarca) si muove: persino i nazisti concedono, quasi rassegnati, che gli argomenti addotti dalle autorità bulgare per ritardare e sospendere le deportazioni abbiano un senso; allorché la popolazione tedesca e i credenti manifestarono contro il Progetto Eutanasia (l’uccisione dei malati di mente), le autorità religiose si mossero (cosa che non fecero, come sappiamo, quando fu la volta degli ebrei nei campi di sterminio). In questi casi di resistenza la scelta tra le due autorità fu difficile, ma possibile, e la disobbedienza agevolata: allo stesso modo negli esperimenti di Milgram quando l’autorità era divisa (e dava ordini contraddittori) il livello di obbedienza crollava.

Lo stesso può valere per le rivolte riuscite nei ghetti dell’Europa orientale, dove all’autorità nazista, che agiva attraverso l’autorità subordinata dei Consigli e della polizia ebraica, si contrapposero i gruppi della resistenza, i quali ottennero il massimo successo quando riuscirono a diventare la nuova autorità o cooperarono con i Consigli e la polizia per la salvezza delle comunità, anziché accettare passivamente le deportazioni.

Grüninger decise di non mutare i valori nei quali credeva, rinnegando la tradizione per seguire il governo: i rifugiati, per lui, avevano la precedenza. Inoltre, decise di agire subito, di opporsi sin dall’inizio, anche a parole, alla decisione delle autorità federali. Gli insegnanti di Milgram che resistettero allo sperimentatore si comportarono in modo simile: l’ordine da eseguire avrebbe avuto come conseguenza la morte, eppure sembra che le obiezioni non abbiano condotto alla ribellione, ma solo all’aperto dissenso; nessun insegnante si alzò per andare a soccorrere la vittima o per tentare di liberarla (tranne nel caso in cui, in una delle varianti, questa era l’autorità stessa, il responsabile dell’esperimento). Invece Grüninger lo fece, in modo naturale e poco appariscente, così come quella minoranza di giusti nell’esperimento di Milgram, che, lungi dall’essere una minoranza di eroi, si oppose, manifestando anche empatia nei confronti della vittima, in modo non combattivo, ordinario.

Insieme all’appello a valori altri (a un’altra autorità) rispetto a quelli imposti dalla distruzione, la compassione provata dai partecipanti all’esperimento sembra essere la stessa provata da Grüninger, da Pesev (per il miracolo bulgaro), da tutti coloro (singoli o gruppo) che decidono di opporsi (come il nonno del mio vicino di casa danese, che ha remato per salvare gli ebrei danesi portandoli nella neutrale Svezia). Emozioni (empatia, compassione) e razionalità (argomenti come quello dell’autorità o della tradizione o della giustizia) devono cooperare: insieme sono una condizione determinante ed essenziale.

Ci sono delle vie di fuga che permettono di disobbedire senza darlo a vedere: Grüninger usava anche una tecnica che può richiamare alcuni sotterfugi dei partecipanti agli esperimenti di Milgram, indicando ai profughi come dovevano comportarsi per evitare di essere respinti alla frontiera; allo stesso modo alcuni partecipanti segnalavano alle vittime in modo non verbale la risposta corretta, onde evitare di doverle punire. Ma per resistere, soprattutto, occorre riuscire a non farsi intrappolare dal meccanismo dell’istituzione totale, perché non è facile sfidare l’autorità (soprattutto se essa è presente, mentre invece quando non c’è sappiamo da Milgram che la percentuale di disobbedienti raddoppia), una volta che si è inserirti in una catena di montaggio, con un compito determinato, preciso, di routine.

A questo proposito, essenziale è la questione del tempo: la durata. Quanto tempo concediamo al meccanismo perché dispieghi le sue implicazioni distruttive? Così come accadde nei casi di resistenza “ordinaria” (il caso Le Chambon è esemplare, perché la resistenza precedette addirittura le richieste delle autorità collaborazioniste di Vichy, anzi, furono queste ultime a rispondere in ritardo; ma lo stesso può dirsi anche per le donne tedesche della Rosenstraße, che sin dall’inizio dei soprusi nazisti si erano rifiutate di lasciare i loro mariti ebrei e che quando questi vennero arrestati per essere deportati intervennero immediatamente), anche negli esperimenti sull’obbedienza, quanto più precocemente gli istruttori simulati discutevano e facevano obiezioni alle richieste dello sperimentatore tanto più precocemente terminavano la loro collaborazione con la disobbedienza nei confronti dell’autorità. Il ritmo dell’esperimento di Milgram non lasciava molto spazio alla riflessione. Dopo aver inflitto la scossa di 150 volt sarebbero stati necessari alcuni minuti per capire quello che si stava facendo e cambiare atteggiamento. Sarebbe stato necessario mantenere l’iniziativa. I soggetti che furono capaci di cogliere lo sperimentatore alla sprovvista, rendendogli la replica impossibile o maldestra, furono in grado di disobbedire. Se analizziamo invece il caso Gerstein, possiamo constatare che la risposta partì in ritardo e in modo ambiguo, dissimulato, cosa che invece non era accaduta in occasione della morte della nipote malata di mente (vittima del programma eufemisticamente chiamato “Eutanasia’, per i casi come il suo si mossero diverse autorità religiose, e il progetto fu bloccato, almeno fino alla guerra). Il suo boicottaggio, senza autorità morali, senza i collaboratori, si manifesta solo allorché il processo di distruzione è ormai avviato, cercando di evitare solo le conseguenze più gravi, e non quando vengono approvate le leggi razziali o quando ci sono le prime violenze gravi violenze contro gli ebrei. Lo stesso dicasi della resistenza nei ghetti, che per lo più, se partì, partì in ritardo e in modo incerto, nell’isolamento dai membri della propria comunità e dai “vicini”, e solo di fronte alla disperazione totale e nell’imminenza delle deportazioni o delle uccisioni, determinando di conseguenza maggiori difficoltà organizzative (ma tale resistenza, come nel ghetto di Varsavia, fu esempio necessario, e forse divenne in quanto tale una nuova forma di autorità).

In definitiva, in questo brevissimo percorso tra le condizioni e le tecniche della resistenza, possiamo considerare in una certa misura corroborata la tesi che ci aveva guidati: in primo luogo, i fattori che hanno reso possibile la resistenza a Le Chambon e nella Rosenstraße, in Bulgaria e nel San Gallo sono, mutatis mutandis, gli stessi che hanno incrementato la disobbedienza dei soggetti negli esperimenti di Milgram e anche la fine dello Stanford Prison Experiment di Zimbardo; in secondo luogo, l’assenza di tali fattori sembra essere invece la ragione del fallimento del tentativo di Gerstein e delle difficoltà nell’organizzare una resistenza delle vittime: questo però  non può ovviamente essere verificato per l’esperimento di Milgram, la cui vittima era consenziente, mentre alcuni elementi possono contribuire a spiegare perché per far terminare gli abusi reali dell’esperimento di Zimbardo ci fu bisogno di un intervento quasi esterno, i tentativi di ribellione da parte delle vittime e dei familiari essendo pressoché completamente falliti.

Due possibilità si aprono a chi vive all’inferno: fingere, come fecero tutti coloro che obbedirono, che, non essendoci via d’uscita, è meglio credere che l’inferno non sia tale e svolgere diligentemente il proprio compito; oppure, come fecero coloro che dissentendo e disobbedendo permisero la resistenza, potenziare ciò che è altro dall’inferno, ciò che, all’interno dell’inferno, può aprire una breccia. E, attentamente, dargli tutto lo spazio che gli occorre.

Per concludere, e a mo’ di congedo.

Vienna, estate 1945. La guerra è appena finita. Un vecchio ebreo logoro, ma dignitoso, entra in un caffé della capitale austriaca e ordina al cameriere un liquorino e una copia del «Völkischer Beobachter», l’organo ufficiale del partito nazista. Imbarazzatissimo, il sussiegoso cameriere porta al vecchio signore ebreo il liquorino e, con circospezione, bisbiglia allo strano cliente: «Sono mortificato, mio buon signore, ma quell’orribile giornale non esiste più».

Per quindici giorni questa scena si ripete identica alla stessa ora, nello stesso caffè.

Al quindicesimo giorno, il sussiegoso cameriere trova la forza di rompere l’imbarazzo e, delicatamente, domanda all’anziano cliente: «Gentile signore, sono quindici giorni che lei viene qui alla stessa ora e ogni volta insieme al suo caffè e al suo liquorino mi chiede di portarle una copia di quel… foglio nazista… e sono quindici giorni che io le ripeto che quell’orribile foglio non si pubblica più, non esiste più. Perché, gentile signore, lei si ostina a chiedermelo?»

E il vecchio ebreo, con sguardo malinconico e con un impercettibile sorriso: «Oooh! Ma proprio per questo, caro signor cameriere… per sentirmi ripetere ogni giorno che quel giornale… non esiste più» (da Moni Ovadia, L’ebreo che ride: L’umorismo ebraico in otto lezioni e duecento storielle, Einaudi, Torino 2014).

 

Per approfondire

Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2013.

Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2014.

Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi, Torino 1995.

Raul Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori, Mondadori, Milano 1997.

Stanley Milgram, Obbedienza all’autorità, Uno sguardo sperimentale, Einaudi, Torino 2003.

 

Su una serie di atti di resistenza e di obbedienza (e per un laboratorio didattico) vedi:

Andrea Gilardoni, (Dis)Obbedienza, Potere & Dominio 2, Mimesis, Milano 2012.

 

La resistenza di Paul Grüninger in Musica:

Emanuele Scataglini, Paul Grüninger, file mp3 contenuto nell’album Stelle, Piume, Violini.

 

Sulla Rosenstraße vedi il film omonimo di Margarethe von Trotta (2003), regista del recente film Hannah Arendt, incentrato sul processo ad Eichmann.

 

Articoli di argomentazione sul problema dell’autorità:

http://www.glistatigenerali.com/filosofia/amicus-plato-sed-magis-amica-veritas-appello-allautorita-di-un-esperto/

http://www.glistatigenerali.com/filosofia/il-galateo-della-discussione-la-prova-dellesperto-in-tribunale/

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.